Lettera di G. B. Vico a Gherardo degli Angeli nel natale del 1725

Si ripropone questa lettera che Vico scrisse a Gherado come augurio agli ebolitani per il prossimo Natale.

Gherardo degli Angeli
Gherardo degli Angeli

EBOLI – Riceviamo e volentieri pubblichiamo la lettera integrale che Gianbattista Vico mandò al nostro illustre concittadino Gherardo degli Angioli a Eboli nel Natale del 1725, con l’aggiunta di alcuni suoi sonetti, nella quale il grande Vico tesse le lodi al giovane Gherardo, per la sua delicatezza, la sua sensibilità, per la sua maturità, ma anche per la sua malinconia che rende preziose le sue poesie. Vico  in occasione del santo natale, per tessere le lodi del giovane Gherardo degli Angeli non trova di meglio per esaltare le invenzion i più grandi e le tecniche più sofisticate che gli uomini hanno saputo mettere in campo per migliorare le proprie condizioni di vita, ma nello stesso tempo sottolinea la grandezza delle arti e soprattutto della poesia e dei poeti più grandi, annoverando tra questi il giovane Gherado.

Questo lavoro è stato curato da Mariano Pastore, e si vuole riproporre in questo periodo coincidente con le prossime festività natalizie, perché si faccia ammenda pensando a questo grande ebolitano con tutti i suoi tormenti confidati al suo maestro Gianbattista Vico, e si riscopra nela sua poesia e nei suoi tormenti quell’amore che egli aveva per la sua terra, ma che i suoi conterranei mal riponevano le loro speranze.

………….  …  ………….

Sopra l’indole della vera Poesia.

Napoli, 26 decembre 1725.

Signor mio, e Padrone Osservandissimo.

Ho ricevuti alquanti Sonetti ed un Capitolo, composti da V. S. in cotesta sua patria, e vi ho scorto un molto maggior ingrandimento di stile sopra il primiero, con cui ella due mesi fa era partita da Napoli; talchè mi han dato forte motivo di osservarli con l’aspetto de’ Princìpii della Poesia da noi ultimamente scoverti col lume della Scienza Nuova d’intorno alla Natura delle Nazioni: perché le selve, ed i boschi, che non sogliono fare gentili gli animi, nè punto raffinare gl’ingegni (nè certamente vedo altra cagione), han fatto cotesto vostro, tanto sensibile, quanto repentino miglioramento.
Primariamente ella è venuta a tempi troppo assottigliati da’ metodi analitici, troppo irrigiditi dalla severità de’ criteri, e sì di una filosofia che professa ammortire tutte le facultà dell’animo, che le provvengono dal corpo, e sopra tutte quella d’imaginare, che oggi si detesta, come madre di tutti gli errori umani; ed, in una parola, ella è venuta a’ tempi d’ una sapienza che assidera tutto il generoso della migliore poesia: la quale non sa spiegarsi, che per trasporti; fa sua regola il giudizio de’ sensi, ed imita, e pigne al vivo le cose, i costumi, gli affetti, con un fortemente imaginarli, e quindi vivamente sentirli.
Ma a’ ragionamenti filosofici di tali materie, ella, come spesso ho avvertito, soltanto colla sua mente si affaccia, come per vederle in piazza o in teatro, non per riceverle dentro a dileguarvi la fantasia, disperdervi la memoria e rintuzzarvi lo ingegno, il quale, senza contrasto, è ‘l padre di tutte l’invenzioni: onde è quello che merita tutta la meraviglia de’ dotti; perché tutte ne’ tempi barbari nacquero le più grandi e le più utili invenzioni, come la bussola e la nave a sole vele, che entrambe han fruttato lo scuoprimento dell’Indie, e ‘l dimostrato compimento della Geografia; il lambicco, che ha cagionato colla Spargirica tanti avvanzamenti alla Medicina, la circolazione del sangue che ha fatto cambiare di sentimenti alla Fisica del corpo animato, e voltar faccia all’Anatomia; la polvere e lo schioppo che han portato una nuova Arte bellica; la stampa e la carta che han riparato alla difficoltà delle ricerche ed alle perdite de’ manoscritti; la cupola sopra quattro punti da altretanti archi sospesa, che ha fatto stupire l’Architettura degli Antichi, ed ha dato motivo a scienza nuova di Meccanica; e sullo spirare della barbarie il cannocchiale, che ha prodotto nuovi sistemi di Astronomia.
Dipoi ella è venuta in età della qui tra noi rifiorente toscana Poesia: ma un tanto beneficio deve ella al tempo, da cui è stata, senza guida altrui, menata a leggere Dante, Petrarca, Guidiccioni, Casa, Bembo, Ariosto ed altri poeti eroici del cinquecento; poiché sopra tutti, non per altrui avviso fattone accorto, ma per lo vostro senso poetico, vi compiacete di Dante, contro il corso naturale de’ giovani, i quali, per lo bel sangue che ride loro nelle vene, si dilettano di fiori, d’acconcezze, d’amenità; e voi con un gusto austero, innanzi gli anni, gustate di quel divino Poeta che alle fantasie delicate di oggidì sembra incolto e ruvido anzi, che no; ed agli orecchi ammorbiditi da musiche effeminate suona una soventi fiate in soave, e bene spesso ancora dispiacente armonia.

Giambattista Vico
Gianbattista Vico

Cotesto le fu dato dal melanconico umore di che ella abbonda: onde nelle conversazioni nostre, anche amenissime, voi dal piacere degli esterni solete ritrarvi a quello del vostro senso interiore: e, quantunque dalla vostra tenera età siate versato ben dieci anni nel lume di questa grande, bella e gentil città dell’Italia, pure, perché siete nato a pensar poetico, rado e poco parlate con favella volgare, e ancora vi comparite poco addestrato alla pulitezza del nostro sermon civile. Or è ben fatto che sappiate cosa fece gran Poeta Dante, di cui voi cotanto vi dilettate per un certo natural senso, onde egli vi fa Poeta, che lavorate di getto, non per riflessione forse men propria, onde egli vi facesse un imitatore meschino.
Egli nacque Dante in seno alla fiera e feroce barbarie d’Italia, la quale non fu maggiore che da quattro secoli innanzi, cioè IX, X ed XI, e nel XII, di mezzo ad essa Firenze incrudele con le fazioni dei Bianchi e Neri, che poi arsero tutta Italia, propagate in quelle de’ Guelfi e de’ Gibellini: per le quali gli uomini dovevano menar la vita nelle selve, o nelle città, come selve; nulla e poco tra loro, o non altrimenti, che per le streme necessità della vita comunicando; nel quale stato dovendosi penuriare di una somma povertà di parlari, tra per la confusione di tante lingue, quante furono le nazioni che dal settentrione eranvi scese ad inondarla, quasi ritornata in Italia quella della gran torre di Babilonia, i Latini da’ barbari, i barbari da’ Latini non intendendosi; e per la vita selvaggia e sola menata nella crudel meditazione di inestinguibili odii che si lasciarono lunga età in retaggio a’ vegnenti, dovette tra gl’Italiani ritornare la lingua muta, che noi dimostrammo, delle prime nazioni gentili, con cui i loro autori, innanzi di truovarsi le lingue articolate, dovettero spiegarsi a guisa di mutoli, per atti o corpi aventi o no naturali rapporti all’idee, che allora dovevano essere sensibilissime, delle cose, che volevan essi significare; le quali espressioni vestite appresso di parole vocali, debbono aver fatta tutta l’evidenza della favella poetica: il quale stato di cose dovette più che altrove durare in Firenze, per lo bollore turbolento di quell’acerrima nazione, come per ben dugento anni appresso, fin che fu tranquillata col Principato, durò il maroso di quella repubblica tempestosissima.
Ma la Provvidenza, perché non si esterminasse affatto il genere umano, rimenandovi i tempi divini del primo mondo delle nazioni, dispose che almeno la religione con la lingua della Chiesa Latina (lo stesso per le stesse cagioni provide all’Oriente con la greca) tenesse gli uomini dell’Occidente in società: onde coloro soli che se n’intendevano, cioè i sacerdoti, erano i sapienti: di che, quanto poco avvertite, tanto gravi ripruove sono queste tre:

I°. Che da questi tempi i regni cristiani, in mezzo al più cieco furore delle armi si fermarono sopra ordini di ecclesiastici; onde quanti erano vescovi, tanti erano i consiglieri de’ re; e ne restò che per tutta la Cristianità, ed in Francia più che altrove, gli ecclesiastici andarono a formare il primo ordine degli Stati.
II°. Che di tempi sì miserevoli non ci sono giunte memorie che scritte in latin corrotto da uomini religiosi, o monaci o chierici.
III°. Che i primi scrittori de’ novelli idiomi volgari furono i Rimatori provenzali, siciliani e fiorentini; e la loro volgare dagli Spagnuoli si dice tuttavia lingua di Romanzo, appo i quali primi Poeti furono Romanzieri, appunto come, per le stesse precorrenti cagioni, noi nella Scienza Nuova dimostrammo Omero, come egli è il primo certo autor greco che ci è pervenuto, così è senza contrasto il principe e padre di tutti i Poeti che fiorirono appresso ne’ tempi addottrinati di Grecia, che gli tengon dietro, ma per assai lungo spazio lontani.

La qual origine di poesia può ogni uno che se ne diletti sentire, non che riflettere, esser vera in sè stessa; che in questa stessa copia di lingua volgare, nella quale siamo nati, egli subito che col verso o con la rima avrà messa la mente in ceppi ed in difficoltà di spiegarsi, senza intenderlo, è portato a parlar poetico, e non mai più prorompe nel meraviglioso, se non quando egli è più angustiato da sì fatta difficoltà. Per cotal povertà di volgar favella, Dante, a spiegare la sua Comedia dovette raccogliere una lingua di tutti i popoli dell’Italia, come, perché venuto in tempi somiglianti, Omero avea raccolta la sua da tutti quelli di Grecia; onde poi ogni uno ne’ di lui poemi ravvisando i suoi parlari natii, tutte le città greche contesero che Omero fosse suo cittadino.
Così Dante, fornito di poetici favellari, impiegò il collerico ingegno nella sua Comedia: nel cui Inferno spiegò tutto il grande della sua fantasia, in narrando ire implacabili, delle quali una, e non più, fu quella di Achille, ed in membrando quantità di spietatissimi tormenti: come appunto, nella fierezza di Grecia barbara, Omero descrisse tante varie atroci forme di fierissime morti, avvenute nè’ combattimenti de’ Troiani co’ Greci, che rendono inimitabile la sua Iliade: ed entrambi di tanta atrocità risparsero le loro favole, che in questa nostra umanità fanno compassione, ed allora cagionavan piacere agli uditori; come oggi gli Inglesi, poco ammolliti dalla delicatezza del secolo non si dilettano di tragedie che non abbiano dell’atroce: appunto quale il primo gusto del teatro greco ancor fiero fu certamente delle nefarie cene di Tieste, e dell’empie stragi fatte da Medea di fratelli e figliuoli.
Ma nel Purgatorio, dove si soffrono tormentosissime pene con inalterabile pazienza; nel Paradiso, ove si gode infinita gioia con una somma pace dell’animo, quanto in questa mansuetudine e pace di costumi umani non lo è, tanto, a’ que’ tempi impazienti di offesa o di dolore, era maravigliosissimo Dante: appunto come, per lo concorso delle stesse cagioni, l’Odissea, ove, si celebra l’eroica pazienza di Ulisse, è appresa ora minore dell’Iliade, la quale à tempi barbari di Omero, simiglianti a quelli che poi seguirono di Dante, dovette recare altissima meraviglia.
Per ciò, che si è detto, ella non già mi sembra esser imitatore di Dante, perché certamente, quando ella compone, non pensa ad imitar Dante, ma con tal melanconico ingegno, tal severo costume, tal incetta di poetici favellari, è un giovinetto di natura poetica de’ tempi di Dante. Quindi nascono coteste tre vostre poetiche priorità:

I°. Che cotal vostra fantasia vi porta ad entrare nelle cose stesse che volete voi dire, ed in quella le vedete si risentite e vive, che non vi permettono di riflettervi; ma vi fanno forza a sentirle, e sentirle con cotesto vostro senso di gioventù, il quale, come l’avverte Orazio nell’Arte, è di sua natura sublime: di più con senso di nulla infievolito dalle presenti filosofie, di nulla ammollito da’ piaceri effeminati, e perciò senso robusto; e, finalmente, per le ombre della vostra malinconia, come all’ombra degli oggetti sembrano maggiori del vero, con senso anche grande; il quale perciò si dea per natura portar dietro l’espressione con grandezza, veemenza, sublimità.
II°. Che i vostri sono sentimenti veri poetici, perché sono spiegati per sensi, non intesi per riflessione; le quali due sorti di poeti Terenzio ci divisò nel suo Cherea, giovinetto violentissimo, il quale della schiava, di cui esso, in vedendola passare per istrada, si era ferventissimamente innamorato, dice al suo amico Antifone:

Quid ego ejus tibi nunc facies prae dicem aut laudem, Antipho,
Cum ipsum me noris, quam elegans formarum spectator siem?

(ecco i poeti che cantano le bellezze e le virtù delle loro donne per riflessione, che sono filosofi che ragionano in versi o in rime di amore); e chiude tutte le somme e sovrane lodi della sua bella schiava con questo senso poetico in questo motto spiegato con poetica brevità: In hac commotus sum, con cui lascia da raccogliere al raziocinio che la schiava sia più bella e leggiadra di quante belle e leggiadre donne, e donne Ateniesi, abbia giammai veduto, osservato e scorto un giudice di buon gusto delle bellezze.
III°. E finalmente, perché i vostri componimenti sono propri de’ subietti di cui parlate, perché non li andate a ritrovare nell’idee de’ filosofi, per cui i subitetti tali dovrebbono essere, onde le false lodi sono veri rimproveri di ciò che loro manca, ma gl’incontrate nell’idee de’ Poeti, con in quelle de’ Pittori, le quali sono le stesse, e non differiscono tra loro che per le parole e i colori: e sì elleno sono idee delle quali essi subietti partecipano qualche cosa; onde con merito li compite, contornandoli sopra esse idee: appunto come i divini pittori compiscono sopra certi loro modelli ideali gli uomini o le donne che essi in tele ritraggono; talchè i ritratti in una miglior aria rappresentino gli originali, che tu puoi dire che è quello o quella.

Per tutto ciò io me ne congratulo con esso lei, e con la nostra nazione, a cui ella farà molta gloria. Le porto mille saluti che le manda il dolcissimo ornamento degli amici P.D. Roberto Sostegni: e le bacio caramente le mani.              

Affezionatissimo, ed Obbligatissimo Serv.

Gianbattista Vico

…………..  …  …………..

Gianbattista Vico a Gherardo degli Angioli.

Garzon sublime, e pien d’animo grande,
Che poche carte far questa età d’oro
Estimi, e come Circi altre, quai fòro
Sopra il vulgo mostrar forze ammirande!
Col tuon Giove forzò l’uom da le ghiande
Ad ammirare il suo divin lavoro;
Ché su gl’ingegni, e le vaghezze loro
Sol può, chi ‘l poter suo per tutto spande.
Il Divo Augusto perché ad onorarlo
Roma ebbe l’Ocèano, e ‘l Ciel confini,
Chiaro feo da per tutto il Padovano.
Ah!, dir non puoi: – Son pronti ad esaltarlo, –
Perché l’Autor, poiché scovrì la mano,
E’ si nascose a’ popoli vicini.

…..  …  …..

Sonetto

Quell’ardente desio, alto, immortale,
Che ti mena per dura, ed aspra via,
Spirto gentil, or con la scorta mia
Pur dee tarpar le pronte, e spedit’ale.
Altro ch’onor d’alloro, a cui non vale
Mostri incontrare, in suo cammin desia:
E armar lo dee valor, qual’Ercol pria
Per fatiche maggiori ad uom mortale.
Perciò ristringi al cor la tua virtude;
Né sperar di vedere unqua cortese,
Ch’al freddo cener tuo l’amata gloria.
E immagini d’Eroi dal Ciel riprese
Sienti, non già le nostre ime, abbattute,
Di cui t’arresterà l’egra memoria.

2 commenti su “Lettera di G. B. Vico a Gherardo degli Angeli nel natale del 1725”

  1. GLI AMERICANI E GLI INGLESI CI HANNO FATTO (anni ’90) “RISCOPRIRE” G.B.VICO: INFATTI NELLA GUERRA FREDDA V’ ERA ANCHE UNA IDEOLOGICA, E GLI AMERICANI SI RESERO CONTO CHE K.MARX, AVEVA IN GRAN CONSIDERAZIONE IL FILOSOFO PARTENOPEO, ED INCOMINCIARONO A LEGGERNE LE OPERE COME “La Scienza Nuova”,TRAENDONE INTERESSE E STUPORE PER UN GENIO PRECURSORE DEI TEMPI,INGIUSTAMENTE CONSIDERATO UN “FILOSOFO MINORE”. NELLA FATTISPECIE IL VICO FU PER DEGLI ANGELI, QUASI COME UN PADRE, GUIDANDOLO NELLA EDUCAZIONE CULTURALE E NELLE SCELTE DI VITA …UNA CURISITA’ :Gherardo, come si è già detto, aveva grande predisposizione alle lettere ed alla filosofia ed il conflitto con il genitore afflisse il suo animo sensibile, ma trovò conforto nell’amicizia e nell’affetto paterno del Vico, di cui, come afferma il Croce, divenne “discepolo beneamato”. Per breve tempo ritornò ad Eboli, dove credeva di trovare plauso, invece i suoi concittadini si mostrarono freddi ed indifferenti. Morì in Napoli nel mese di giugno del 1783 e fu sepolto nella chiesa di Santa Maria della Stella. (a cura di M.Pastore)…GLI EBOLITANI NON MUTANO MAI INDOLE, DOPO SECOLI SON GLI STESSI

    Rispondi
  2. uno dei + grandi personaggi che la nostra città abbia mai conosciuto…e l’unico elogio che gli facciamo è un piccolo largo del centro storico…e il marmo con il nome è perfino sporco e invecchiato…

    qualcuno salvi questa città

    Rispondi

Lascia un commento