Il sacrificio di Reyhaneh Jabbari: Essere donna in Medio Oriente. Piccole trasgressioni, strappate centimetro per centimetro.
Il regime è nervoso, reagisce con durezza, ma non sa bene come fermare questa ondata: come impedire ad una donna di parlare con altre per la strada o di far loro visita nelle case? E’ un segnale di speranza, che le donne iraniane mandano al mondo intero anche a rischio della propria vita.
di Annamaria Forte
per (POLITICAdeMENTE) il blog di Massimo Del Mese
ROMA – L’esecuzione è avvenuta all’alba. Secondo alcune fonti il figlio della vittima ha tolto lo sgabello da sotto i piedi della condannata e Reyhaneh Jabbari è pensolata giù. A nulla è servita la campagna internazionale per salvarla. A firmare la mobilitazione anche Papa Francesco. La procura di Teheran ha motivato la sentenza dicendo che si è trattato di omicidio premeditato e non legittima difesa.
L’articolo 1117 del codice civile recita: “Il marito può vietare a sua moglie le occupazioni e i lavori tecnici che sono incompatibili con gli interessi della famiglia o con la dignità di sua moglie”. Decine di migliaia di donne dal 1979 sono state arrestate per motivi politici, spesso torturate e giustiziate nelle famigerate prigioni di Evin, a Teheran.
Molte sono decedute durante le torture. In base ad una consuetudine religiosa le vergini condannate alla pena capitale devono essere stuprate prima di essere giustiziate, perché le vergini non vanno in paradiso.
Così centinaia di donne sposate di varia età sono state lapidate in tutto l’Iran per il reato di adulterio. Lo stesso accade per gli uomini, ma con una differenza: al momento della lapidazione gli uomini vengono interrati sino alla vita, mentre le donne fino al collo. Cosa cambia? Molto, se si considera che la sharia consente l’impunità a coloro che nel corso dell’esecuzione riescono comunque a divincolarsi e a liberarsi dal terreno. Dunque anche nell’ultima agonia del supplizio la donna ha una posizione di inferiorità rispetto all’uomo. Alcuni siti islamisti contestano tale dato, riferendo che la lapidazione attualmente in Iran viene comminata al di fuori dei tribunali ordinari, e cioè solo da quelli tribali.
La condizione femminile in Iran, fin quando è durato il governo dello Scià, poteva considerarsi accettabile rispetto al resto del mondo islamico, con un grado di emancipazione non disprezzabile. La modernizzazione filo-occidentale aveva prodotto i suoi frutti: nel mondo del lavoro, nelle professioni, nella moda …; poi è venuta la rivoluzione khomeinista.
Una volta al potere, nel 1979, i mullah imposero numerose restrizioni sociali. Fu abolito il codice di famiglia del 1967, che pure garantiva una certa uguaglianza fra i sessi, e fu introdotto l’obbligo del velo. Khomeini dispose il modo con cui le donne avrebbero dovuto vestire negli uffici e nei luoghi pubblici. La Rivoluzione islamica non ha imposto solo il velo. Contro le ”leggi misogine” e la discriminazione dei sessi contenuti nella sharia è stata organizzata una manifestazione il 12 giugno del 2006, stroncata sul nascere dall’intervento delle forze antisommoss
Sotto la presidenza di Ahmadinejad le cose, se possibile, sono peggiorate. Gli uomini della polizia religiosa a Teheran e nelle altre città sfrecciano per le strade su grosse autovetture controllando che il livello di moralità pubblica, specie per quanto riguarda le donne, sia adeguato alle prescrizioni khomeiniste. I polsi, le caviglie, il volto e il mento: tutto deve essere ben velato dallo chador. Le donne “mal velate” incrociate per strada dai pasdaran, vengono accompagnate nelle centrali di polizia e costrette a sottoscrivere una dichiarazione di pentimento per evitare problemi. L’obbligo del velo condiziona pesantemente anche le sportive iraniane, costrette a gareggiare con larghi vestiti simili allo chador. In occasione della giornata della donna dell’8 marzo, Teheran è stata attraversata spesso da manifestazioni e proteste femminili; il tutto si è concluso con arresti e pesanti restrittive sull’abbigliamento. Una di queste è stata “La giornata nazionale del veloo” indetta in un periodo in cui, con l’avanzare della primavera, il caldo soffocante rende più urgente la necessità di alleggerire gli spolverini, varando nuove leggi restrittive sull’abito islamico con pesanti multe per chi trasgredisce portando abiti trasparenti o attillati, foulard che lasciano sfuggire ciocche di capelli, fuseaux troppo corti, smalto sulle unghie.
Il caso.
La giovane iraniana Reyhaneh Jabbari è stata impiccata all’alba del 25 ottobre. La ragazza, di 26 anni, era stata condannata a morte per l’uccisione dell’uomo che voleva stuprarla. Secondo alcune fonti, il figlio della vittima ha tolto lo sgabello da sotto i piedi della ragazza. A dare la notizia della morte è stata la famiglia della donna. La madre della condannata, Shole Pakravan, non ha assistito all’esecuzione ed è rimasta tutta la notte fuori dalla prigione. Poco dopo l’alba ha scritto su Facebook: “Mia figlia con la febbre ha ballato sulla forca”. I genitori erano stati convocati nel carcere di Rajayi Shahr a Karajper, vicino a Teheran per vedere Reyhaneh l’ultima volta prima di essere trasferita nel carcere Gohardasht a Karaj dove è avvenuta l’impiccagione.
Il giorno dell’impiccagione la madre della ragazza aveva tentato l’ultimo disperato appello: “L’ho abbracciata per l’ultima volta, bisogna intervenite al più presto, fate qualcosa per salvare la vita di mia figlia”. Prima dell’esecuzione, il vice direttore di Amnesty International per il Medio Oriente e l’Africa, Hassiba Hadj Sahraoui, aveva sottolineato in un comunicato: “Il tempo sta per scadere per Reyhaneh Jabbari. Le autorità devono agire adesso per fermare l’esecuzione. Una simile punizione in qualsiasi circostanza rappresenta un affronto alla giustizia, ma eseguirla dopo un processo imperfetto che lascia grandi punti interrogativi sul caso rende la cosa più tragica“.
La campagna per la liberazione di Reyhaneh è partita alla luce del processo sommario che ha determinato la condanna della donna. Nelle ore successive all’impiccagione la procura iraniana ha motivato la pena decretando che si è trattato di omicidio premeditato e non legittima difesa. Secondo la giustizia iraniana la ragazza “aveva acquistato un coltello da cucina due giorni prima dell’omicidio” e l’ha usato per uccidere. Questa la precisazione del procuratore di Teheran che ha aggiunto che l’uomo assassinato è stato colpito alle spalle e che Reyhaneh ha “inviato un sms ad un amico nel quale lo informava che avrebbe ucciso l’uomo e ciò dimostra che l’omicidio era premeditato e che l’affermazione della donna di volersi difendersi dallo stupro è senza fondamento”.
La famiglia aveva lanciato un appello a cui ha risposto la comunità internazionale, ma a nulla è valsa la mobilitazione a cui hanno risposto papa Francesco, Amnesty International e molti intellettuali iraniani. La campagna di mobilitazione era stata lanciata su Facebook e Twitter il mese scorso e, in un primo momento, sembrava avesse portato a una sospensione temporanea della pena. I fatti per cui è stata condannata Reyhaneh risalgono al 2007, quando la donna accoltellò Morteza Abdolali Sarbandi, un ex dipendente dell’intelligence iraniana. Per salvarsi, la ragazza avrebbe dovuto negare di aver subito un tentativo di violenza sessuale. Secondo la legge iraniana, infatti, avrebbe ottenuto il perdono e avrebbe potuto salvarsi. Una settimana fa era fallito l’ultimo tentativo di essere perdonata dalla famiglia della vittima. Il timore che fosse giunto l’ultimo giorno di vita Reyhaneh era avallato dal fatto che, sabato 25 ottobre, in Iran ha inizio il mese sacro di Muharram.
Roma, 2 novembre 2014