Il Trittico del Pavanino: Un capolavoro universale, e tra storia, religione, nobilta’, delitti e castighi, emerge la sola certezza di percorrere la nobile storia della Città di Eboli.
Conte: “Il dipinto, testimone di quelle umane tragedie, rimane un capolavoro dell’arte rinascimentale di incommensurabile bellezza, segno della pietà e della devozione degli ebolitani che lo commissionarono a Pavanino da Palermo“.
da (POLITICAdeMENTE) il blog di Massimo Del Mese
EBOLI – Riceviamo e volentieri pubblichiamo un piccolo saggio di Carmine Conte, il quale analizzando alcuni frammenti storici e valutando alcune altre circostanze relativamente al trittico del Pavanino da Palermo, il dipinto del ‘400 ora nella Chiesa Monumentale di S. Francesco di Eboli, ponendosi alcune domande e provando a rispondersi, perviene a delle sue conclusioni e riporta alla luce un piccolo ma importante spaccato della lunga e straordinaria storia ebolitana.
Lo fa in punta di piedi, sviluppando alcune logiche deduzioni, corroborate da ricerche e studi di altri appassionati cultori, come lui, della storia cittadina. Domande e deduzioni che riesce a mettere insieme fino a tracciare un percorso tanto verosimile quanto convincente, proprio perché presentate in maniera logica ma su tracce storiche, insomma un’operazione che non ha niente da invidiare rispetto ai più blasonati storici e critici d’arte. In punta di piedi perché con la semplicità di chi offre le sue riflessioni senza avere la presunzione cattedratica di rappresentare il “verbo”.
Carmine Conte non é uno storico e non é un critico d’arte, anzi, per il lavoro che quotidianamente svolge, essendo biologo e dirigente della Centrale del latte di Salerno, più che alle deduzioni deve affidarsi all’esattezza della scienza, assicurando alla Centrale del Latte di Salerno con i suoi studi sugli alimenti, di competere con i suoi prodotti per innovazione e genuinità con altre aziende nazionali e multinazionali.
In punta di piedi e senza presunzione perché Carmine é solo un ebolitano da generazioni ed é un imperdonabile romantico e un appassionato sognatore, che ama la sua Città, la vive con discrezione e in questo momento di profonda crisi morale, sociale ed economica, rinnova e rafforza il suo amore, e con la forza del sentimento, utilizzando la storia, spera che altri si ricordino quante nobili siano le loro tradizioni, indipendentemente se i propri avi fossero, nobili o popolani, e soprattutto siano di guida ai tanti, che nel corso del tempo, hanno scelto di vivere in questa Città, per modo da spingerli ad assorbire l’orgoglio di viverla e di amarla riconoscendola come madre e non matrigna.
Buona lettura.
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di Carmine Conte
IL TRITTICO DEL PAVANINO
Avrò avuto tante occasioni di vederlo IL TRITTICO DEL PAVANINO sull’altare della chiesa di S. Biagio ma stavolta quando me lo sono ritrovato davanti, restaurato, nella monumentale chiesa di S. Francesco è stato diverso. Sono tornato più volte al cospetto di quel dipinto di cui colpisce soprattutto lo sguardo della Madonna . Al contempo mi ponevo una serie di domande le cui risposte convergevano tutte verso una storia intimamente e tragicamente legata a Eboli.
Mi chiedevo come mai un quadro così bello e costoso per l’epoca fu collocato in S. Eustachio, attualmente S. Biagio, e non in uno dei monasteri o delle tante chiese ben più munifiche già esistenti a Eboli.
Perchè proprio in “una delle poche chiese non belle di Eboli, di forma quadrata”, come la descrive mons. G. Bergamo nel libro: “Chiese e monasteri di Eboli tra il 1000 e il 1300“.
Curiosamente poi, dagli abitanti del posto, la chiesa di S. Biagio era chiamata proprio la stanza quadrata.
Sappiamo tutti che un affresco o un dipinto, ancorché sacro,non era mai fine a se stesso ma doveva sempre raccontare qualcosa, avere significati precisi e non solo per i fedeli .In quest’ottica la figura di S.Eustachio, rappresentando il santo della chiesa d’origine, avrebbe una sua logica ma come spiegare all’altro lato del trittico la presenza di Santa Caterina d’Alessandria?
A Eboli esiste una chiesa, oggi S. Giuseppe, anticamente chiamata di S. Caterina, attigua all’omonima porta della città distrutta dai bombardamenti aerei del 1943 che ho sempre pensato essere dedicata a S.Caterina da Siena, ora invece credo fosse dedicata proprio a quella S. Caterina d’Alessandria rappresentata nel trittico per il semplice fatto che la porta si chiamava di S. Caterina ben prima della nascita, nel 1347, della Santa da Siena. La chiesa quindi era dedicata proprio a S. Caterina d’Alessandria.
E ora che anche l’altro pannello laterale poteva avere un senso, almeno per me, la storia prende forma.
La storia che racconta il trittico inizia da largo Prospero Caravita dove dalle prigioni del Castello, scendendo probabilmente per l’attuale Via Marcangioni che porta direttamente alla chiesa di S. Eustachio, venivano condotti i condannati a morte (1).
In largo de Santo Heustachio, come veniva chiamata quella piazzetta, attendeva un carro su cui lo sventurato veniva fatto salire e legato a un palo, poi percorrendo la strada che oggi ricalca esattamente via G. Vacca e corso Umberto, veniva portato alla forca nel luogo che una cronaca del 1550 descrive con le stesse parole giunte immacolate fin quasi ai nostri giorni: “for a porta (d)e Santa Catarina” (2).
Prima di essere legato sul carro, al condannato a morte, com’era consuetudine, veniva concesso di comunicarsi e raccogliersi un’ultima volta in preghiera. Viene naturale pensare che ciò avvenisse proprio nella chiesa di S. Eustachio: così dal 1472, quando il trittico fu posto sull’altare di quella chiesa, il condannato poteva pregare avendo davanti agli occhi quello sguardo materno e misericordioso che ancora oggi commuove ed emoziona. Poi, tra una folla rumorosa, il pianto e la disperazione dei congiunti e in una atmosfera che possiamo solo immaginare, saliva sul carro che dalla chiesa di S. Eustachio lo avrebbe condotto a quella di Santa Caterina d’Alessandria, sua ultima destinazione terrena.
S. Eustachio e S. Caterina d’Alessandria, iconograficamente raffigurati con lancia e scudo il primo e ruota chiodata la seconda, rappresentano l’inizio e la fine dell’ultimo viaggio terreno del condannato a morte che nello sguardo materno e misericordioso della Madonna con Bambino posta al centro del Trittico, trova il coraggio di affrontare la fine della sua vita terrena, implorando il perdono dei propri peccati e la salvezza dell’anima.
Di quelle povere, umili persone, spesso innocenti, sovente torturate prima di essere giustiziate non rimane traccia nella memoria degli ebolitani se non, forse, in quelle due parole che hanno attraversato i secoli e sono giunte fino a noi quasi come sbiadito ricordo della disperazione e dell’immane sofferenza provata da chi prima di morire saliva i gradini della chiesa e varcava la soglia di quella “stanza quadrata” ma soprattutto, muto testimone di quelle umane tragedie, rimane un capolavoro dell’arte rinascimentale di incommensurabile bellezza, segno della pietà e della devozione degli ebolitani che lo commissionarono a Pavanino da Palermo.
Il Trittico dell’Eterna Madre con il Bambino tra S. Eustachio e S. Caterina d’Alessandria, dunque, era stato pensato proprio per la stanza quadrata dei condannati a morte. E sull’altare centrale della chiesa di S.Eustachio, poi S. Biagio, è rimasto per oltre cinque secoli, fino al suo trafugamento nel 1990.
Naturalmente questa è la mia personale chiave di lettura di uno splendido dipinto che ha ancora tanto da raccontare e della sua storia che, per chi la trova plausibile, rappresenta un valore aggiunto di un’opera d’arte rinascimentale che forse non a caso tra quelle trafugate, scomparse o temporaneamente custodite al Museo diocesano di Salerno è l’unica miracolosamente ritrovata ed è l’unica miracolosamente tornata nella città a cui rimarrà indissolubilmente legata per sempre (3) .
Sarebbe auspicabile che il Trittico venga riportato ad un’altezza adeguata, per meglio poterla apprezzare nella sua più naturale e degna collocazione su uno degli altari già esistenti nella monumentale chiesa di S. Francesco o su un altare appositamente destinato ad esso.
E concludo con parole non mie che toccano profondamente il cuore:
“Che questo sguardo non manchi mai agli Ebolitani ed a chiunque altro: è l’Amore incondizionato più alto dell’universo, salvo quello di Dio, e sono stati necessari oltre mille anni di elaborazione artistica per esprimerlo a questo sublime livello”(4).
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(1)Le esecuzioni capitali (anche) a Eboli non erano rare e si comminavano non solo per punire i colpevoli di misfatti leggendari, eclatanti e tragici rimasti nella memoria storica ebolitana come quello dell’arco dei tredici ma si poteva morire per molto meno,anche solo per aver sparlato di nobili e notabili locali come testimonia Franco Manzione che nel suo lavoro all’archivio di stato si è spesso ritrovato tra le mani antichi documenti che descrivono i processi ,le condanne e le esecuzioni capitali di questi sventurati .
(2)Quella che segue è la trascrizione integrale di quanto pubblicato sul social network di Paolo Sgroia “Eboli nella Storia” il 3 luglio 2014 da un giovane e appassionato storico Ebolitano:
EBOLI, 11 SETTEMBRE 1550: UNA CONDANNA A MORTE
di Christian Di Biase
L’undici di settembre dell’anno 1550, ai tempi di Carlo V imperatore e di Ferrante Sanseverino, tra gli altri titoli, feudatario di Eboli, alla presenza del giudice Paduano e dei testimoni “Johannes Nicola de Troiano, Pacileo de Consulibus, Gullielmus Sante, Paulo Antonio de Veritate, chierico Gullielmo de Pulpo, Iacopo Antonio Caravita”, i nobili Agostino Caravita, Guglielmo Antonio de Troiano, Giovanni Francesco de Rahone, Giacomo Antonio Malacarne, Orazio de Cristofaro, Matteo Antonio, Donato e Antonio de Perecta Paolo Antonio de Odorisio, Giovanni Andrea Corefone, Bernardino Ferraris, don Francesco e Paolo de Forgione, Milone e Cesare de Lurentio figli di Donato, Nicola de Modano, Vincenzo de Grosso, Bartolomeo de Siena e don Lorenzo Sandella di Eboli dichiararano di aver visto, nei pressi della chiesa di S. Eustachio, trasportare Geronimo Gugliuczo detto “spataro” di Eboli, legato ad un palo su un carro, per essere giustiziato, mediante impiccagione“fora a Porta de Santa Caterina”. L’accusa che gravava sulla sua testa, tanto grave all’epoca da essere prevista la pena capitale, era quella di aver diffamato il nobile Giovanni Nicola Caravita. Da altre fonti sappiamo quanto i Caravita, in quegli anni, fossero divenuti potenti e temuti (vedi ad es. Maria Teresa Salvatore, “Prospero Caravita”, in Studi e ricerche su Eboli, 2010). La motivazione dichiarata per la quale essi sottostanno a questa dichiarazione giurata è, cito il documento: “che parole disse dicto Hieronimo sponte da se medesmo et che lo vogliano declarar ad futura rei memoriam et pro cautela del ditto magnifico Johannes Cola suo fratello qui predicti Joannes Antonius”, cioé testimoni dell’offesa che il condannato aveva arrecato ad un nobile della loro cerchia in un’epoca in cui, certamente, la legge non era uguale per tutti. Essi, inoltre, dichiarano di aver assistito sia al trasporto sia all’esecuzione del condannato, ma non tutti erano presenti in entrambi i momenti: “cum juramento declaraverunt ad futuram rei memoria che ipsi se trovaro li dì proximi passati in detto loco et largo de Santo Heustachio et fora la porta de Santa Catarina de Ebolo in lo loco dove fo justiziato dicto quondam Hieronimo, per alcuni de ipsi non foro in tucti detti dui lochi a principio usque ad fine. . . “. Il condannato viene trasportato fuori dalle mura della città, attraverso la porta di Santa Caterina, detta anche”della terra”, porta ancora esistente fino al secondo conflitto mondiale, secondo un cerimoniale, quello dell’espulsione dalle mura cittadine, volto a connotare come infamante quel tipo di morte, del reo che viene espulso dalla comunità (vedi ZORZI, Andrea: «Rituali e cerimoniali penali nelle città italiane (secc. XIII-XVI)», Riti e rituali nelle società medievali, Centro italiano di studi sull’alto medioevo, Spoleto, 1994, pp. 141-157. e dello stesso autore “La pena di morte in Italia nel Tardo Medioevo”in nº 4 (2007), pp. 47-62, [da Web], 2007). Del resto, l’impiccagione, che comportava spesso la successiva esposizione pubblica del corpo, era considerata da sempre come una condanna degradante e riservata alla plebe mentre che per i nobili era prevista la meno infamante decapitazione. I nobili convenuti al cospetto del notaio dichiarano inoltre di aver udito il condannato giustificarsi dicendo che la sua confessione gli era stata strappata di bocca con la tortura e negando ogni accusa: “: “che io et ho infamato et deposto contri dicto magnifico Joanne Cola Caravita, tucto quello che so ho dicto et deposto contro magnifico Joannes Cola non fu mai ne [. . . ] vero ma llo ho, dicto et deposto per li tormenti ho havuti da la justitia”, per i nobili ivece, la spiegazione è chiaramente un’altra: “che in lo suo parlare lo timor che havea de li tormenti”. La testimonianza resa al notaio da questi nobili ebolitani ci fornisce, alla fine, la preziosa immagine, a mio avviso, degli ultimi istanti del condannato che facendosi il segno della croce lascia che lo si uccida senza fare storie: “et allo morir se dimostrò morir con bona despositione et cristianamente facendosi cruci allo lassar se fece da dicta scala quando si appise”. La morte per impiccagione, ricordo, avveniva, e avviene, nei Paesi in cui tale pratica è ancora in uso, non per asfissia, come comunemente si crede e cioé con la costrizione meccanica delle vie aeree ma dovuta all’ostruzione dei vasi arteriosi e venosi del collo stesso, cioè carotide e giugulare causando un aumento della pressione endocranica che porta alla perdita di coscienza e alla morte, nel giro di qualche minuto mentre che una morte immediata avviene solo se nella caduta si ha la rottura del dente dell’epistrofeo, la seconda vertebra cervicale causando alla vittima un trauma bulbo midollare che interessa i tratti alti del midollo cervicale e il tronco encefalico e che agendo sui centri vitali dell’ organismo causa una morte istantanea. Riferimento documentario: busta 2530, Protocolli notarili, notaio Paolo Palladino di Eboli, Archivio di Stato di Salerno. Per questo: ringraziamenti all’amico dott. D. De Leo.
(3)Per il ritorno del trittico a Eboli,gran merito va riconosciuto alla paziente opera e all’impegno profuso da don Alfonso Raimo, parroco della chiesa di S. Francesco in Eboli e nostro benemerito e amato concittadino.
(4) Così descrive l’opera Vito Merola e, di essa, quello che più ci attrae. Da “Eboli nella storia” .
Eboli, 18 agosto 2014
Bella storia degna del suo trittico.
Risorse e appunti che associato ad altro sarebbero energia per uno sviluppo turistico del centro storico di Eboli.
Grazie a Carmine e a tutti gfli ebolitani che hanno contribuito alla realizzazione della storia . uniti si scoprirebbero tante verita.