Con 169 voti a favore e 139 contrari, Matteo Renzi riceve la fiducia al Senato: “Il mio è un governo politico”.
Il discorso del presidente del Consiglio a palazzo Madama punta su riforme ed Europa. Non mancano i botta e risposta con il Movimento 5 Stelle e una battuta alla Lega Nord. Ma i numeri non sono a rischio.
da POLITICAdeMENTE il blog di Massimo Del Mese
ROMA – «Questo è un governo politico». Matteo Renzi lo rivendica, perché è sicuro: «Noi possiamo andare nelle piazze a testa alta». «L’idea che da questa parte ci sia la casta e dall’altra i cittadini si è un po’ rovesciata», provoca rivolto ai 5 stelle, «perché i cittadini chiedono risposte». E parla lungamente di scuola, come preferisce, Renzi: «c’è bisogno di riconoscere il ruolo degli insegnanti». Annuncia che visiterà, come faceva a Firenze, una scuola a settimana, e poi chiede, ancora rivolto ai 5 stelle: «Ma ci avete mai parlato con gli insegnanti, voi?».
Parla di Europa, Renzi, del debito pubblico: «Non sono Mario Draghi e Angela Merkel a imporci serietà con il debito pubblico, sono i nostri figli», dice. Ed «è la subalternità culturale che ci fa considerare l’Europa la nosta matrigna». Vuole fare bella figura al semestre europeo: «dobbiamo arrivare a luglio con le riforme fatte per guidare politicamente l‘Europa».
Per questo, «abbiamo allungato la vita a questa legislatura», perché «eravamo di fronte a un bivio». «Il Pd non ha paura di andare alle elezioni», dice ancora rivolto ai 5 stelle, «lo abbiamo dimostrato in Sardegna dove voi non vi siete presentati». Ma senza legge elettorale «nessuno avrebbe avuto i numeri per governare» è l’analisi già nota. Ricorda l’obiettivo 2018 ma «arrivarci ha un senso», dice «solo se avvertiamo l’urgenza di cambiamenti radicali».
Tra questi ci sono ovviamente le riforme «su cui», si vanta il presidente del consiglio, «c’è un accordo che va oltre la maggioranza di governo». Si presenta al Senato, Renzi, dicendo che lui potrebbe «essere l’ultimo presidente a chiedere la fiducia in questa aula». «La riforma del Senato partirà da qui», dice, «e quella del Titolo V dalla Camera». Poi replica con una battuta ai malumori della Lega: «capisco che il senatore Calderoli sia entusiasta».
Prima del semestre europeo dice di voler affrontare le riforme principali, «la cui urgenza detta la nostra agenda»: «il lavoro», «il fisco», e – un po’ a sorpresa – «la giustizia». «Abbiamo vissuto venti anni di scontro ideologico», dice Renzi, «io credo sia arrivato il momento di un pacchetto organico di revisione della giustizia».
«I numeri su PIL e disoccupazione non sono i numeri di una crisi», dice ancora Renzi, «sono i numeri di un tracollo». Ed ecco gli annunci: «lo sblocco totale dei debito della pubblica amministrazione», e «un fondo di garanzia per le piccole e medie imprese». «Una riduzione a doppia cifra del cuneo fiscale», è poi la promessa, «nel primo semestre del 2014».
Arriva così Renzi alla prova dei numeri, prima ancora che dei fatti. La seduta cominciata alle 14 durerà fino a sera, prima di arrivare al voto dopo 5 ore di dibattito. Ma non ci saranno colpi di scena.
Per far nascere il governo servono 161 voti, ma punta a una soglia più alta, simile a quella su cui poteva contare Enrico Letta. «Ma vedrai che avremo sorprese», dicono dal Pd, «in senso positivo»: insomma, non saranno meno di 173 voti, ma si «potrebbe arrivare a 180». Arrivano e con 169 voti favorevoli e 139 contrari, arriva il primo via libero dal Senato.
Come? 108 sono del Pd (ma il presidente del senato Pietro Grasso non vota), 31 degli alfaniani. Poi ci sono 7 di Scelta Civica e 10 delle Autonomie. 12 sono i Popolari per L’Italia di Mario Mauro e 5 i senatori a vita (ma sono attese le assenze di Ciampi e di Renzo Piano, quindi 3). Poi c’è l’aiutino di Gal: sicuri gli ex Pdl Antonio Scavone e Giuseppe Compagnone («Se Renzi penserà al Sud agiremo di conseguenza»), e l’ex Lega Michelino Davico, che già aveva votato la fiducia a Letta. Ma forse sono di più, con i senatori del Grande Sud di Gianfranco Micciché, Mario Ferrara e Giovanni Mauro, e soprattutto con i senatori vicini al forzista campano Nicola Cosentino, Vincenzo D’Anna, Pietro Langella e Antonio Milo.
Dal Pd, poi, non dovrebbe mancare nessuno. Sembra rientrato ogni dissenso. I civatiani, riuniti domenica a Bologna, hanno fatto capire che voteranno la fiducia («non vogliamo uscire dal Pd» è la sintesi di un sondaggio). Walter Tocci, Corradino Mineo, Felice Casson, Lorenza Ricchiuti, Donatella Albano e Sergio Lo Giudice: i “dissidenti” dissentiranno forse, ma solo a parole. Il solo Giuseppe Civati, che però vota alla Camera dove i numeri contano assai meno, dice di pensarci ancora, «fino a martedì mattina», quando si voterà alla Camera, e nota un po’ amaro: «ma sarò l’unico a votare contro». Sulla decisione, certamente, pesano le parole dell’ex segretario Pier Luigi Bersani: «Chi pensa di non votare la fiducia ha perso la bussola. Se non si vota finisce il Pd». Parole molto simili a quelle di Filippo Tidei, già civatiano alle primarie, ma ora responsabile economico della segreteria di Renzi: «chi non vota è fuori dal Pd».
Nessuna sorpresa, poi, dai lettiani. Lo sgarbo della cerimonia della campanella basta e avanza: «voteremo la fiducia» dice la deputata Paola De Micheli. Certo però lo strappo di Renzi «lascerà il segno nei nostri elettori, nei militanti e nei gruppi dirigenti», dice intervistata da La Stampa. E se la fiducia ci sarà, si torna a parlare anche di una possibile scissione guidata dall’ex primo ministro.
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Tutto a Renzi in 10 giorni
Matteo Renzi, Pd, presidente del Consiglio dei Ministri. L’ex bimbaccio in soli 10 giorni ha affossato il compagno di partito Enrico Letta e varato il governo del più giovane premier della storia italiana. La sua corsa a Palazzo Chigi parte nel 2010 con la rottamazione della classe dirigente del Pd arrivata tre anni dopo con la conquista della poltrona di segretario. A Firenze il suo feudo, dove è partito come presidente della Provincia nel 2004 e sindaco a Palazzo Vecchio nel 2009. Cattolico, ex scout, dotato di lingua sciolta e battuta pronta, dopo di lui nulla sarà come prima.
Graziano Delrio, sottosegretario alla presidenza del Consiglio. Debutta in politica come consigliere comunale per il Partito popolare nel 1999, dopo nove anni da sindaco a Reggio Emilia è diventato ministro (in quota Renzi) per gli affari regionali e dello sport con Letta. Medico e padre di nove figli è uno dei consiglieri più ascoltati dal premier che l’ha voluto al suo fianco nella stanza dei bottoni.
Angelino Alfano, Ncd, ministero dell’Interno. Avvocato e democristiano, da Agrigento è passato per il parlamentino siciliano fino alla Camera dove è stato eletto nel 2001. Scala la classifica dei preferiti di Silvio Berlusconi che lo nomina Guardasigilli nel 2008 e primo e unico segretario del Pdl a luglio 2011. Due anni dopo l’ex delfino taglia il cordone ombelicale e fonda il Nuovo centrodestra appoggiando Enrico Letta e Matteo Renzi.
Roma, 25 febbraio 2014
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