Quello che si temeva è arrivato: la rivolta partita dalla Tunisia travolge anche l’Egitto, il paese guida del mondo islamico.
Per i giovani dell’Africa mediterranea la strada della speranza porta solo verso il nord, verso l’Europa, verso di noi.
di Romano Prodi
ROMA – Quello che si temeva è arrivato: la rivolta partita dalla Tunisia travolge l’Egitto. Quando si parla di Egitto si parla non solo di ottanta milioni di abitanti, ma anche del Paese-guida del mondo islamico sia dal punto di vista delle elaborazioni teologico-religiose, sia riguardo la nascita e il radicamento di nuovi movimenti politici.
Qui sono nati i fratelli musulmani mentre, nelle università egiziane, è stato elaborata e diffusa verso tutti i Paesi arabi la dottrina sul nuovo ruolo dell’islamismo nella politica mondiale. E dall’Egitto sembrava anche partire la primavera dell’economia del Mediterraneo del Sud, con una crescita finalmente intorno al cinque per cento all’anno.
Una crescita che tuttavia si era fermata in una fascia estremamente ristretta della popolazione e che non poteva perciò fermare il malcontento dei milioni di giovani senza lavoro, senza speranza e senza voce. Ai quali si è aggiunta la protesta degli altri milioni di egiziani oppressi dall’aumento vertiginoso dei prezzi dei beni alimentari ed esasperati dalle speculazioni che intorno a questi aumenti si erano create.
Nessuno di noi è in grado di prevedere che cosa avverrà nei prossimi giorni, se cioè l’esercito (finora il vero padrone del paese) affronterà i dimostranti con ancora maggior violenza o giocherà un ruolo di mediazione. Ancor oggi sembra più probabile la prima ipotesi, anche perchè il presidente Mubarak ha mobilitato a questo scopo le quattro divisioni composte esclusivamente di militari di carriera, da sempre stanziate attorno al Cairo e ad Alessandria proprio per controllare manifestazioni simili a quelle che stanno avvenendo in questi giorni.
Un’ipotesi confermata dallo stesso messaggio televisivo di Mubarak, che ha chiuso ogni prospettiva di ritiro e si è solo impegnato ad un cambiamento del governo, di cui ai dimostranti non importa sostanzialmente nulla. Essi vogliono solo la caduta di Mubarak.
È probabile quindi che lo scontro andrà fino in fondo ed è anche possibile che Mubarak debba lasciare improvvisamente il campo ( la nomina del generale Omar Soleiman potrebbe preludere a una dipartita del Rais) come è accaduto in Tunisia a Ben Ali e come spesso accade ai governanti autoritari che pensano che nessun evento li possa in alcun modo fare scendere dal trono.
Se anche Mubarak dovesse rimanere al potere, le conseguenze degli eventi in corso saranno di enorme portata in tutto il Medio Oriente perché, in ogni caso, l’Egitto non sarà più in grado di esercitare il ruolo di mediatore fra Israele e il mondo arabo e di mediatore all’interno del mondo arabo. Un ruolo che, anche se con decrescente successo, aveva sempre esercitato in passato.
Comunque vadano le cose, Israele non potrà più contare su un Egitto destinatario dell’incondizionata fiducia americana proprio perché in grado di tenere sotto controllo gli arabi più muscolosi. A questo si aggiungono le crescenti inquietudini in Giordania e l’evoluzione politica del Libano, dove la forza preminente del governo è ora nelle mani degli Hezbollah, non certo amici di Israele. Anche senza allargare lo sguardo ai problemi della successione in Arabia Saudita e alle tensioni in Yemen, si deve concludere che Israele si troverà ad operare in un ambiente molto più ostile di quello precedente.
I tradizionali equilibri del Medio Oriente sono già definitivamente saltati. Sarà perciò molto più complicato per gli Stati Uniti esercitare il ruolo di arbitro assoluto che hanno sempre avuto. Finora il presidente Obama, anche se ha cercato di dare un certo impulso alle trattative di pace, non è stato in grado di elaborare una linea sostanzialmente diversa rispetto a quella del suo predecessore: tutto ciò sarà da ora in poi impossibile in qualsiasi modo si risolva la crisi egiziana.
A questo punto sarebbe naturale concludere che si è aperto un ruolo per l’Unione Europea che, più di tutti, commercia, investe e soprattutto conosce il Sud del Mediterraneo. Anche perché il suo intervento è insistentemente desiderato e richiesto. È purtroppo doveroso ammettere che questo non è assolutamente possibile: lo impediscono le sue divisioni e le sue debolezze. Ne è una prova il disagio e la delusione dei paesi della sponda Sud nei confronti dell’Unione del Mediterraneo, un progetto di cooperazione fra Europa e sud del Mediterraneo che è stato lanciato con grande clamore ma al quale non sono mai stati attribuiti né i mezzi finanziari né la forza politica necessaria.
Eppure i paesi che oggi sono in fiamme non sono lontani da noi. Essi sono i nostri immediati vicini. Tutta l’Europa deve perciò tenere presente che qualsiasi deterioramento della situazione politica ed economica di questi nostri vicini meridionali non può che moltiplicare il numero delle persone che si affollerà alle nostre porte con la forza della disperazione.
Per i giovani dell’Africa mediterranea la strada della speranza porta solo verso il nord, cioè verso di noi. Anche per questo motivo mi provoca dolore e indignazione vedere come l’Unione Europea non sia in grado di elaborare una qualsiasi politica in una parte del mondo così importante per il futuro di tutti noi.
Milano, da il Mattino del 30 gennaio 2011