La finanziaria non rilancia le infrastrutture. Non stimola le imprese. Rinvia la riforma fiscale. Lievita le imposte locali. Non aiuta competitività e innovazione. Accresce le diseguaglianze. Mortifica ricerca e cultura.
Sarebbe necessario che l’opposizione sollevasse la questioni che riguardano le famiglie, i lavoratori, gli imprenditori, i consumatori, i giovani, e che il governo ne rispondesse al Parlamento e al paese.
di Eugenio Scalfari
ROMA – Se il 14 dicembre ci sarà la crisi di governo e che cosa accadrà dopo è ancora terreno incognito, non lo sanno né Fini né Casini né Bersani né Veltroni né Vendola e non lo sanno neppure Berlusconi e Bossi. Un tempo si diceva che il futuro è sulle ginocchia di Giove e questa è appunto la situazione attuale, solo che non si sa chi sia Giove e ci sono anche forti dubbi sulla sua esistenza.
Ma in attesa che si sollevino le nebbie su quanto accadrà tra una ventina di giorni, parliamo di questioni più certe e più concrete che interessano da vicino quella moltitudine di italiani che debbono tutti i giorni guadagnarsi una vita decente e spesso non ci riescono. Parliamo delle risorse che non si trovano, del lavoro che scarseggia, dei salari e delle pensioni che scendono al di sotto dei livelli di sussistenza; parliamo delle tasse e del potere d’acquisto, delle diseguaglianze paurose, di giovani che a trent’anni cercano ancora un lavoro e anzi non lo cercano più. Parliamo della legge di stabilità finanziaria all’esame del Parlamento. Anzi cominciamo proprio di lì: la legge di stabilità 2011 che porta il sigillo di Giulio Tremonti, ministro dell’Economia, anzi dittatore dell’Economia e possibile successore del Cavaliere.
Il presidente della Repubblica ha ottenuto, con l’accordo dei presidenti delle Camere, che le forze politiche si impegnino ad approvare la legge finanziaria entro il 10 dicembre rinviando al 13 l’esame della crisi politica e al 14 la votazione delle mozioni di fiducia e sfiducia nei due rami del Parlamento. La stessa questione si era presentata sedici anni fa, nel novembre del 1994, all’epoca del primo governo Berlusconi messo in crisi dalla Lega e il presidente Oscar Luigi Scalfaro l’aveva risolta nello stesso modo. Sembra preistoria, ma i problemi erano i medesimi allora ed oggi. Che cosa ha spinto lo Scalfaro di allora e il Napolitano di oggi ad entrare a gamba tesa nella zona riservata al Parlamento e ai partiti? Non certo la bontà d’una legge, sul cui merito essi non hanno alcun titolo per intervenire, ma il fondato timore che una crisi di governo eccitasse la speculazione e provocasse una crisi finanziaria e valutaria di tale gravità da scardinare l‘economia italiana la cui fragilità era evidente allora e lo è ancor di più oggi.
Sedici anni fa c’era ancora la lira, moneta debole e sballottata da continue svalutazioni; oggi c’è l’euro e da questo punto di vista la situazione è certamente migliore nonostante che anche l’euro ondeggi sull’ottovolante di una depressione mondiale che è la più grave dal 1929 ai giorni nostri. Ma la fragilità della nostra economia reale è nel frattempo aumentata: abbiamo perso competitività, siamo agli ultimi posti nella crescita, ai primi posti nell’evasione fiscale e nel debito pubblico, la domanda interna registra un diagramma piatto, la disoccupazione effettiva è arrivata all’11 per cento, quella giovanile al 20 con punte oltre il 30 nel Mezzogiorno. Una speculazione agguerrita potrebbe utilizzare una crisi di governo di difficile soluzione come un trampolino di lancio ideale per travolgere i titoli di Stato italiani e metterci nella condizione della Grecia, dell’Irlanda e del Portogallo.
Questa è stata la preoccupazione che ha travagliato il Capo dello Stato e lo ha indotto ad intervenire. Il suo intervento ha avuto successo, la crisi politica è stata rinviata di un mese, nel frattempo la legge Tremonti procede speditamente e senza intoppi. Ma c’è un risvolto negativo: la legge Tremonti è una cattiva soluzione della situazione finanziaria ed economica del paese. Anzi: non è affatto una soluzione. Non risolve nulla, semmai aggrava. Non elimina gli sprechi perché i tagli lineari abbassano indiscriminatamente le spese correnti e quelle destinate agli investimenti con effetti deflazionistici sull’intera situazione. Non migliora le prestazioni dei servizi pubblici, anzi le rende ancora più fatiscenti. Non rilancia le infrastrutture, anzi le deprime ulteriormente. Non stimola le imprese. Rinvia a tempo indefinito la riforma fiscale. Fa lievitare le imposte locali. Non aiuta la competitività e l’innovazione. Accresce le diseguaglianze. Mortifica la ricerca e la cultura.
Questa è la legge Tremonti. Il risvolto negativo della “moral suasion” del Capo dello Stato consiste nell’aver attenuato le critiche che questa pessima legge avrebbe meritato nella sede appropriata del dibattito parlamentare. Ha impedito, quella “moral suasion”, che la speculazione si scatenasse e questo è un risultato prezioso; ma ha spianato la strada ad una politica economica che avrebbe dovuto mettere la crescita allo stesso livello di priorità dei saldi contabili ma non l’ha mai fatto da quando il ministro Tremonti guida il super ministero dell’Economia, cioè da quasi nove anni con il breve intervallo di due anni durante il travagliatissimo governo Prodi del 2006/2008.
Giulio Tremonti ha perfettamente ragione quando, a proposito della crisi irlandese, ha detto che l’Italia non è il problema ma è parte della soluzione del problema. Nel caso specifico le cose stanno così. Ha dimenticato però di dire che in altri casi l’Italia non è parte della soluzione del problema ma è il problema di cui l’Europa si deve far carico. Ne indico due di rilevantissime dimensioni. Il primo è quello della criminalità organizzata. Un aspetto riguarda l’ordine pubblico e non è di competenza del ministro dell’Economia, ma l’altro aspetto, di gran lunga più rilevante, lo riguarda invece direttamente e consiste nel riciclaggio dei fondi di origine mafiosa e nell’infiltrazione delle mafie nel tessuto economico nazionale ed europeo. Il contrasto dello Stato all’espandersi di questo fenomeno è stato finora debolissimo e inefficiente. Il secondo problema è il debito pubblico italiano che si è attestato al 118 per cento del Pil nel 2010 ed è previsto al 120 per cento nel 2011.
Il debito pubblico italiano fa parte integrante del debito pubblico dell’Unione europea, come tutti i debiti pubblici espressi in euro. La Germania e la Francia hanno fatto approvare in Commissione l’obbligo di rientro dei debiti eccedenti il 60 per cento del Pil entro due anni a partire dal 2012. Questa delibera della Commissione dovrà essere approvata dal Parlamento di Strasburgo. Potrà forse essere attenuata ma non di molto. Se fosse integralmente ratificata comporterebbe per noi una manovra nel 2012 di 45 miliardi solo per ottemperare a quell’obbligo e altrettanti per l’anno successivo. Se sarà attenuata dal Parlamento europeo potrebbe scendere a 30 miliardi, 60 nei due anni, ma non certo al di sotto. Credo di non dover spiegare che cosa rappresentino manovre di queste dimensioni per un paese già stremato da una stasi nella crescita che dura da vent’anni. In questi due casi specifici noi siamo il problema dell’Europa, ma il governo si è finora guardato bene dall’informarne il Parlamento e il paese.
Che il 14 dicembre ci sia la crisi del governo o non ci sia e che ad essa segua un governo alternativo o le elezioni è certamente importante. Resta però il fatto che – indipendentemente dalle vicende strettamente politiche – i due problemi sopraindicati pesano come macigni su tutti gli altri sopraelencati, quelli che riguardano le famiglie, i lavoratori, gli imprenditori, i consumatori, i giovani. Sarebbe necessario che l’opposizione sollevasse queste questioni di fondo e che il governo ne rispondesse al Parlamento e al paese. In fondo si tratta della nostra vita quotidiana. Vi sembra poco?
21 novembre 2010
Dove è finita la finanza creativa di Tremonti? E’ finita a servizio della Lega e contro ilo Sud. LADRI.