NORD & SUD il dibattito
Il giudizio sul Risorgimento, nel caso migliore, è quello, inverosimile, espresso nel romanzo il Gattopardo: cambiare tutto per non cambiare nulla.
Il Risorgimento fu fatto contro i contadini, contro il popolo, contro tutti, specie contro i meridionali.
NAPOLI – Con questo articolo di Giuseppe Galasso, POLITICAdeMENTE, ha intenzione di continuare a favorire il dibattito sulla questione meridionale e sulla così detta “questione settentrionale”, tutta inventata dai grandi potentati del Nord e ora cavalcata dalla Lega Nord, che al momento insieme ad un Governo del tutto “nordizzato” li rappresenta.
Il Governo, distratto dalla ossessione della difesa del Premier, manipolato dalla Lega, con la scusa dell’inefficienza e della corruzione della classe dirigente del Sud, sta concentrando tutto il suo interesse e tutte le risorse dello stato al Nord. Quindi oggi, come ieri con lo stato Sabaudo, la Storia si ripete più che mai, ma se si intende salvare l’unità nazionale bisogna discutere ed affrontare la “questione Meridionale” come “questione nazionale“, facendo soprattutto autocritica, cercando di comprendere motivazioni e disagio, sia delle popolazioni del nord sia di quelle del sud.
Parlarne per cercare di trovare la soluzione ad un problema, che appare sempre più complicato e che se non trova una rapida risoluzione rischia di allontanare in maniera irreversibile, queste due aree geografiche e suoi cittadini. E POLITICAdeMENTE prima con l’articolo di Ernesto Galli Della Loggia, con quello del passaggio di Garibaldi del 6 settembre del 1860 ad Eboli e poi con questo di Galasso, vuole puntare i riflettori sul Risorgimento italiano e sulle sue implicazioni nelle “sfortune” del meridione.
Galasso ha ragione quando sostiene che il Risorgimento italiano e stato fatto contro tutti, ivi comprendendo i piemontesi, ma purtroppo quelli che più hanno perso sono stati quelli del Sud e le politiche di oggi vanno nella stessa direzione di quelle che ora stiamo analizzando criticamente.
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NEL SUD PREUNITARIO
Il brigantaggio scoperto due volte
di Giuseppe Galasso
NAPOLI – E’ duro, ormai, leggere certe cose sul Risorgimento e sull’ unità italiana. Lasciamo stare le tante amenità sentite sull’ identità italiana; o le riduzioni ideologistiche del Risorgimento a una cortina fumogena di tutt’ altre cose che la nazione italiana e la sua unità; o le manie e le smanie revisionistiche che rimpiangono la vecchia Italia e i suoi vecchi Stati (tranne, meno male, lo Stato della Chiesa).
Il punto è un altro.
Voi credevate al Risorgimento fatto contro l’ Austria, contro la Curia romana, contro le dinastie e contro le classi dirigenti legate all’ assetto italiano di prima del 1861?
Vi sbagliavate.
Il Risorgimento fu fatto contro i contadini, contro il popolo e (ora si è scoperto) contro tutti: lombardi, veneti, toscani, gli stessi piemontesi, e, in specie, contro i meridionali. Non parliamo poi dei lager sabaudi, del milione di morti della «guerra nazionale» napoletana nel Sud (con totale disprezzo per tutte le statistiche demografiche dal 1860 al 1870), delle rapine piemontesi (specie al Sud) e di tanto altro.
Ma come si fa a credere che tutte queste siano «scoperte» e coraggiose «rivelazioni» che ora finalmente vengono fatte emergere?
Non c’ è, infatti, molto di ciò che si gabella oggi per nuovo e inedito che non abbia dietro di sé una rispettabile anzianità. Il Risorgimento non era neppure terminato, e già si iniziò a processarlo, in storia e in letteratura.
La «conquista regia»? il peso marginale delle classi popolari nel moto e nella sistemazione finale? La natura borghese dell’ ordine sociale uscito dal 1861? L’ assorbimento finanziario e l’ unificazione tributaria a danno del Mezzogiorno? La scelta del centralismo anziché del federalismo o dell’autonomismo? L’ indiscriminata unificazione legislativa?
Ebbene, proprio questo e altro è ciò di cui si è parlato con successivi approfondimenti e con grande varietà di racconto e di giudizi in un secolo e più di studi, come sa chiunque abbia letto Cattaneo e Nitti, Oriani, Gobetti, Rosselli, Salvemini, per non parlare dei «soliti» Chabod o Romeo, o del grande lavoro di storia sociale del Risorgimento e dell’ unità svolto dagli storici «gramsciani» e da quelli «cattolici» dopo il 1945.
Prendete il caso del brigantaggio.
Se ne è parlato sempre. Esso non nacque affatto nel 1861. Era un grave problema, endemico e storico, del Mezzogiorno. Nel 1817 e nel 1821 con dure campagne di guerra il governo borbonico ne attenuò la portata, e in seguito cercò di controllarlo, ma non riuscì mai a eliminarlo, come dimostrano le sue cronache giudiziarie fino al 1860. Giustino Fortunato raccolse al riguardo un’ enorme quantità di materiale. Ne discussero negli Anni 30 Omodeo e altri.
Dopo la guerra un libro di Franco Molfese ne fissò alcuni tratti fondamentali. Convegni e seminari, talora di alto livello, ne hanno via via riproposto il tema. Ora sembra che tutto si scopra come una terra vergine, sempre nascosta dal solito imputato di tali misfatti, la «storiografia ufficiale», un monolite inesistente.
Dopo la guerra si parlava di Bronte e dei relativi, tragici e crudeli massacri. Oggi si parla molto di Pontelandolfo, altra storia di tragici e crudeli massacri. Scoperte? Colpevoli silenzi? Di Bronte si fece un film di forte efficacia rappresentativa quanto discutibile in punto di storia. Di Pontelandolfo si parlò molto già al tempo dei fatti, e non se ne è mai taciuto.
Sia a Bronte che a Pontelandolfo non si ebbe un semplice caso di brigantaggio, bensì, piuttosto, di questioni di altro ordine, come quelle poi inviperite dallo spregiudicato uso politico antitaliano del brigantaggio da parte borbonica e clericale dopo il 1860. Ma tant’ è. Il giudizio sul Risorgimento, nel caso migliore, è quello, inverosimile, espresso in un romanzo (per me) di assoluto fascino, Il Gattopardo: cambiare tutto per non cambiare nulla.
Perché tutto ciò? Bisognerà parlarne a parte. Per ora, indulgo a un sogno.
E se, fra tante scoperte e rivelazioni, qualcuno scoprisse e rivelasse di nuovo il grande senso di rivoluzione e di modernizzazione politica, culturale e morale del Risorgimento e dell’ unità? Se si scoprisse che non è stato il Risorgimento a inventare l’ Italia e la nazione italiana, bensì la nazione italiana a fare il Risorgimento e l’ unità? Se si rivelasse il mondo dei «nobili affetti» e delle «generose passioni» proprio al Risorgimento e al moto nazionale? Se qualcuno riscoprisse il grande e faticato travaglio che ha portato l’ Italia da realtà marginale nell’ economia mondiale a Paese dei dieci o dodici oggi più avanzati?
Anche queste cose, come quelle dette di sopra, hanno dietro di sé un secolo di studi, ma gli studi vi sono per essere proseguiti, approfonditi e rinnovati, non per essere sostituiti da «scoperte» e «rivelazioni», che non apportino ad essi, come è auspicabile, ma accade di rado, effettivi, nuovi contributi.
Giuseppe Galasso
E’ uno storico, giornalista, politico e professore universitario italiano.
Cosa fu veramente il Brigantaggio e chi furono i briganti? Delinquenti o resistenti, malfattori o patrioti? Non è difficile intuire quanto vale la risposta a questa domanda e perché la questione Brigantaggio sia la prima da risolvere e la più dolorosa. Non solo in senso cronologico o per le migliaia di vite distrutte, ma perché l’interpretazione che ne fu data, e che è stata accettata dalla storiografia successiva, divenne la matrice dei rapporti tra Nord e Sud che si è perpetuata fino ai nostri giorni, e soprattutto perché ha radici profonde: se i briganti furono delinquenti, l’Italia nacque legittimamente, ma se i briganti furono patrioti e resistenti, allora è tutta un’altra storia.
Un notevole contributo alla ricerca della risposta ci viene dal volume Brigantaggio legittima difesa del Sud, edito dall’Editoriale Il Giglio (Napoli 2000, pagg. 206, lire 30.000), che ha il notevole pregio di raccogliere per la prima volta insieme i nove articoli che la prestigiosa rivista dei Gesuiti, La Civiltà Cattolica, dedicò, tra il 1861 e il 1870, al cosiddetto Brigantaggio e alla terribile repressione che lo Stato unitario mise in atto per annientarlo. Impreziositi dall’indicazione degli autori (in originale erano anonimi), gli articoli rappresentano una fonte storica incontestabile per attendibilità ed autorevolezza e, nel loro insieme, costituiscono una documentazione imprescindibile per far chiarezza su un periodo della storia d’Italia che presenta più ombre che luci e sul quale vige ancora in parte il segreto di Stato. La rivista cattolica, infatti, nonostante fosse schierata su posizioni antiunitarie e, anzi, sin dalla nascita nel 1850, avesse dichiarato apertamente un intento antagonista rispetto alla imperversante stampa liberale, divenne in breve un punto di riferimento, per il rigore e la solidità delle trattazioni e per l’indiscutibile formazione dei collaboratori, anche in quei salotti intellettuali e in quei caffè che animavano la scena politica e culturale dell’epoca. I suoi articoli si ripropongono a noi, oggi, come un osservatorio privilegiato, attento ed obiettivamente critico della vicenda storica italiana.
Cosa ci dicono del Brigantaggio i padri Gesuiti della “Civiltà Cattolica”? «Questo che voi chiamate con nome ingiurioso di Brigantaggio non è che una vera reazione dell’oppresso contro l’oppressore, della vittima contro il carnefice, del derubato contro il ladro, in una parola del diritto contro l’iniquità. L’idea che muove cotesta reazione è l’idea politica, morale e religiosa della giustizia, della proprietà, della libertà».
Non fenomeno delinquenziale, dunque, ma reazione del popolo contro un’invasione armata che lo spogliava del proprio Paese, della propria libertà, delle proprie ricchezze, del proprio legittimo Re. Il Brigantaggio, infatti, ebbe inizio letteralmente all’indomani della partenza per l’esilio del Re Francesco II di Borbone, avvenuta il 13 febbraio 1861; i paesi lucani di Tricarico, Montescaglioso, Stigliano, Lavello, Grottole, Laurenzana, Montemurro e Ferrandina si sollevarono il 15 del mese. In realtà, fino a quel momento, la popolazione non era stata inerte di fronte all’occupazione piemontese, ma aveva attivamente fiancheggiato le truppe dell’esercito borbonico.
Dopo la resa di Gaeta, le sollevazioni popolari si moltiplicarono in tutti i distretti del Regno, in una sorta di reazione a catena, e si andarono radunando bande armate, formate da contadini, artigiani, ex soldati borbonici sbandati, piccoli signori locali. a guerra militare si trasformò in guerra civile, come scriveva padre Carlo Curci in un suo articolo. D’altra parte, la collaborazione dei Napoletani con garibaldini e piemontesi non era mai stata corale e anzi fu assolutamente inferiore anche alle aspettative degli stessi “liberatori”.
Il popolo, per la maggior parte, sin dal primo momento dell’invasione, fu ostile e prese le armi. Lo confermano anche le parole, riportate da padre Carlo Piccirillo, di un testimone d’eccezione, Nino Bixio, braccio destro di Garibaldi e in seguito deputato. In una seduta parlamentare sulla repressione del brigantaggio siciliano, Bixio, tra lo sconcerto generale, disse: «La libertà della Sicilia non è opera della sola Sicilia, è opera dell’Italia.
Credete in me, vi dico la verità. Se le province d’Italia non avessero mandato alla Sicilia gli elementi che le hanno mandato, la Sicilia non sarebbe libera e noi non saremmo qui a parlare, saremmo stati strozzati. […] Eravamo circa quindicimila uomini: sei mila erano Veneti, cinque mila circa erano Lombardi, mille erano Toscani e tremila circa erano Siciliani. […] Mi si dirà che discorrendo di questi fatti, vengono fuori cose dolorose a sapersi. Ma il mondo è com’è, ed importa sempre conoscere il nostro Paese».
Solo tremila siciliani collaborarono con i garibaldini, su una popolazione di due milioni e mezzo! Questa dichiarazione di Bixio, che da sola basta a sfatare la leggenda risorgimentale delle “grida di dolore” giunte fino a Torino, è registrata negli Atti Ufficiali del Parlamento, e padre Piccirillo ne dà tutti i riferimenti.
La guerra dei briganti durò più di dieci anni e vide schierate quasi 500 bande, che riunivano da poche unità fino a 900 uomini. La repressione messa in atto dai Piemontesi fu violentissima sin dall’inizio, ma inefficace. Non bastò la metà dell’intero esercito italiano (120mila soldati), cioè 52 reggimenti di fanteria, 10 di granatieri, 5 di cavalleria e 19 battaglioni di bersaglieri, per avere ragione dei briganti; non bastarono neppure 7500 carabinieri e 84mila militi della guardia nazionale.
Il nuovo Regno d’Italia schierò ben 211.500 soldati e inviò i suoi ufficiali di maggior rilievo, come il principe Savoia Carignano, Cialdini, Pinelli, Negri, eppure per molto tempo non riuscì a distruggere neppure una banda, nonostante decine di migliaia di esecuzioni sommarie e una feroce rappresaglia che coinvolse familiari e compaesani dei combattenti.
Solo nei primi dieci mesi di combattimenti, furono fucilati 9860 briganti o presunti tali; 6 interi paesi furono dati alle fiamme (i più conosciuti sono Casalduni e Pontelandolfo); 13.629 persone furono imprigionate, la maggior parte senza processo. Come si potevano giustificare di fronte all’opinione pubblica italiana un simile schieramento di forze, tante atrocità e risultati tanto scarsi? Soprattutto, come si poteva giustificare l’accanita resistenza dei Meridionali contro i sedicenti “liberatori”? Quale spiegazione si poteva dare del fatto che le fila dei briganti continuassero ad ingrossarsi man mano che la piemontesizzazione procedeva? In Piemonte qualche dubbio cominciava a serpeggiare anche tra i liberali e i fautori del nuovo regno d’Italia; persino Massimo d’Azeglio scriveva: “[…] ci vogliono, e pare che non bastino, 60 battaglioni per tenere il Regno, ed è notorio che, briganti o non briganti, non tutti ne vogliono sapere. Mi diranno: e il suffragio universale? Io non so niente di suffragio, ma so che di qua dal Tronto non ci vogliono 60 battaglioni, e di là sì. re volte dunque esulano detronizzati i Borbone dal loro regno e tre volte il brigantaggio leva il suo capo arditamente a loro sostegno». La ricostruzione storica del gesuita è impeccabile e la definizione di legittimisti restituisce dignità ai popolani briganti e ai nobili stranieri, come José Borjes, Rafael Tristany, Emile de Christen e tanti altri, che combatterono con loro e che furono chiamati “avventurieri”. L’articolo di padre Piccirillo continua con la confutazione, punto per punto, della Relazione: se la popolazione era povera perché affamata dai Borbone, come mai non si sollevò contro di essi e si sollevava allora contro i “liberatori”? Le cupe boscaglie e gli aspri monti, causa, secondo il Massari, dello spuntare di funghi e briganti, non esistevano già al tempo dei Borbone? La povertà c’era, sì, ma meno che nel passato e non più che altrove: dunque, come mai essa aveva dato tragici effetti solo all’arrivo dei Piemontesi?
Quanto poi alle altre cause, cioè lo scioglimento dell’esercito borbonico e la leva obbligatoria, indicate dal relatore come secondarie, non testimoniavano con forza che, piuttosto che soldati dei Savoia, i Meridionali preferivano essere Briganti e combattere per il proprio Re? Le tesi insulse e vergognosamente addomesticate della Relazione Massari ebbero come risultato la promulgazione della Legge Pica, che imponeva lo stato d’assedio e la corte marziale a tutte le regioni del Sud e la repressione militare del Brigantaggio, già di fatto praticata sin dall’inizio.
Chiunque fosse anche solo sospettato di essere un brigante poteva essere passato per le armi senza processo; chiunque aiutasse o non denunciasse un brigante, comprese madri, mogli e figlie, era passibile dell’ergastolo; chiunque circolasse senza lasciapassare incorreva nell’arresto; le famiglie di presunti briganti erano condannate al domicilio coatto: questi i provvedimenti presi. Nei primi due mesi di applicazione della Legge Pica si ebbero 1.035 esecuzioni e 6.564 arresti; ragazzine di appena dieci anni, colpevoli di essere figlie di briganti, furono condannate a vent’anni di carcere e furono separate dalle madri, anch’esse imprigionate; intere famiglie furono smembrate e deportate. «La Legge Pica, unico frutto della Commissione d’Inchiesta sul Brigantaggio, ha potuto riempire le carceri e le isole di sospetti, ha potuto costernare terre e province intere con inaudite vessazioni d’ogni sorta, ma non ha potuto distruggere una sola delle bande armate, anzi al contrario le ha fatte più numerose, più ardite e, ciò che è per tutti ugualmente deplorabile, più crudeli» scrisse padre Piccirillo nel suo articolo.
Gli anni tra il 1861 e il 1870 furono un lungo periodo di disumana violenza, durante il quale si seminarono disprezzo e odio; gli stessi soldati piemontesi ne furono travolti: ai 23mila uccisi in combattimento, bisogna aggiungere alcune centinaia di suicidi e poco meno di un migliaio di disertori, molti dei quali passarono dalla parte dei briganti. Sul fronte borbonico, invece, si contarono non meno di 250mila morti, tra combattenti, fucilati e prigionieri, e circa 500mila condannati; anche i deportati non furono certamente pochi, se entro il 1865 se ne contavano già 12mila. Verso la fine del tremendo decennio, il Brigantaggio, decimato e incattivito, andò perdendo la spinta ideale che lo aveva animato e le bande rimaste si diedero, allora sì, ad atti di malavita, istigate anche dalla condizione di estrema povertà nella quale le regioni meridionali erano cadute e dalla nascita del latifondo, che toglieva ai contadini ogni possibilità di una sopravvivenza dignitosa.
Solo da quel momento in poi, la repressione piemontese prese il sopravvento: il Brigantaggio fu debellato definitivamente e i Meridionali andarono a cercare una nuova vita nelle Americhe, avviando un fenomeno del tutto sconosciuto fino nel Regno delle Due Sicilie.
Nel 1861, infatti, si contavano soltanto 220mila italiani residenti all’estero; nel 1914 erano 6 milioni. È inquietante, se si pensa che la popolazione dell’ex Regno napoletano era composta da 8 milioni di persone. L’esercito sardo aveva avuto la propria vittoria, ma non così il regno d’Italia: i briganti non erano distrutti, avevano trovato un’altra forma di resistenza, l’emigrazione.
Quanta tristezza sotto il nostro cielo. Da Galasso ci si aspettava qualcosa di più.
Non esageriamo, c’erano i patrioti contadini, ma c’erano soprattutto malfattori. Sempre pochi rispetto a quelli che girano adesso.
Il tuttolologo M. Naponiello sembra già aver detto tutto sul brigantaggio. Ma dove trova il tempo per scrivere questi interminabili interventi su tutte le questioni che vengono proposte dal blog? beato lui che non ha tanto tempo a disposizione!
Mi permetto di aggiungere anch’io qualcosa sull’argomento che già ho sfiorato in altra occasione.
Nell’opera “Il romanticismo legittimistico” del 1927, Benedetto Croce,filosofo e senatore ,in accordo con Zimmerman,afferma che “il brigantaggio napoletano,idealizzato poeticamente dai legittimisti europei, era sostanzialmente malandrinaggio e non guerriglia politica”
Don Benedetto, grande prprietario terriero di Pescasseroli, non mostra alcuna pietà verso i briganti.Egli,da grande possessore di dodici “masserie” nei terreni dell’ex Tavoliere, non la poteva fare buona ai briganti ed ai loro fiancheggiatori. Così Croce finisce per prendersela addirittura con Vctor Hugo definendolo ” bardo della democrazia”, perchè il grande scrittore francese si dichiarò disgustato dei metodi piemontesi ed aveva protestato con vigore contro la fucilazione senza processo del generale legittimista borbonico JOSE’ BORJES. Quest’ultimo era sbarcato in Calabria il 13 settembre 1861 per compiere la missione impossibile di salvare il Regno delle Due Sicilie. Egli si alleò col brigante Carmine Donatello Crocco che, a fine anno 1861 lo lasciò solo con i suoi 22 soldati spagnoli e una decina di italiani. Il Borjes cercò di ritirarsi nello Stato Pontificio per riorganizzarsi e riprendere la lotta armata in tutto il sud Italia.
Ma fu intercettato dal maggiore sabaudo Enrico Franchini che non volle accettare da lui la spada in segno di resa e non gli concesse di comandare il plotone di esecuzione. Furono tutti barbaramente fucilati senza onore dagli invasori piemontesi.
Tornando a B.Croce,un altro padre della patria da tavolino,paladino della borghesia liberale,non poteva sopportare che i contadini meridionali insorti, considerassero Vittorio Emanuele II un usurpatore contro il re Borbone che governava con paterna sollecitudine. Infatti i Borboni avevano mostrato,a differenza dei Savoia, un atteggiamento neutro,se non benevolo nei riguardi della gente umile nella gestione della complessa questione demaniale. Perciò la gente comune,non volendo avventure e novità, rimpiangeva il vecchio ordine,non sapeva spiegarsene il crollo repentino se non attribuendolo al tradimento dei borghesi. Di conseguenza li odiava.
Per questo i burocrati bollavano la resistenza come “reazione” e la repressione contro le popolazioni meridionali ribelli fu durissima nei cinque mesi dall’ottobre 1860 al gennaio 1861.
Alla così detta violenza contadina faceva riscontro una violenza anche maggiore dei piemontesi e dei loro fiancheggiatori. Il governatore De Virgilii inviava proclami feroci nei quali auspicava la repressione più dura “Colpite i reazionari senza pietà,giacchè essi svergognano voi,il paese,la santa causa italiana !”
Ma,come si sa , le cose in Italia via via cambiarono leggermente . I re borboni non furono più definiti “stupidi e ciechi” ma semplicemente “populisti”. Persino via Roma a Napoli è tornata ad essere via Toledo e agli spagnoli è stata restituita perfino la fontana di via Medina!
Così,molti scrittori e giornalisti italiani,col tempo scoprono una vocazione anti-autoritaria ,diventano araldi della democrazia nonchè collaboratori fissi del CORRIERE DELLA SERA, dell’UNITA’, della STAMPA,della REPUBBLICA. Essi,pur esprimendo sforzi critici,sofferenze,tormenti,dubbi,ecc.ecc. su quel periodo storico,hanno sempre considerato,tuttavia,i briganti come zozzi e faziosi, perchè a nessuno faceva comodo discuterne se non in modo strumentale.Come si fece si è fatto.
Il filosofo B. Croce rimase orfano in età giovanile di etrmbi i genitori che perirono nel terremoto di Casamicciola. Venne accolto e cresciuto a Roma in casa dello zio Silvio Spaventa, affilato con Luigi Settembrini alla “Giovine Italia”. Riconosciuto colpevole di gravi atti sovversivi Spaventa venne condannato morte dai Borbone, condanna poi tramutata in ergastolo. Dopo il 1860 l’aria che si respirva in casa Spaventa era sicuramente anti Borbonica e in questo clma si abbeverò il giovane Benedetto. I Savoia seppero cogliere l’occasione di “sfruttare” gli scritti dell’ormai noto Benedetto Croce che, aderendo alla corrente filosofica del Labriola e Gentile, da uomo del Sud non risparmiò giudizi negativi sull’operato dei Borbone negando anche quel che di buono fecero. Questa concezione della storia del Sud fece breccia e divenne un punto di rferimento per i testi scolatici e nell’insegnamento nelle università del nord cancellando per sempre la verità dei fatti … e questo fino a poco tempo fa
(notizie tratte da “Quell’amara Unità d’Italia” di Dora Liguori ed. Sibylla).
A. Voza
Quindi,sig. Armando confermi pienamente quanto ho affermato nel mio intervento. Credo che Croce rappresenti proprio il classico filosofo all’italiana,padre della patria,intriso di perbenismo e ipocrisia. Egli,pur essendo meridionale,arrecò grave nocumento proprio al sud d’Italia,con i suoi scritti antiborbonici che nascondevano il tentativo di difendere anche i suoi personali possedimenti terrieri nelle Puglie! Ha fatto più danni al Mezzogiorno,Benedetto Croce,che la seconda guerra mondiale!
Dagli scritti di don Benedetto si estrassero i libri di testo per le scuole elementari e superiori e i nostri adolescenti crebbero con la storia scritta dai vincitori piemontesi,mentre tute le pagine gloriose di sofferenza,sacrifici,lotte contadine,guerriglie brigantesche,vennero accuratamente nascoste e rimosse.
Attorno a B.Croce, tutta una classe borghese meridionale si adeguò alla nuova situazione creata dai Savoia e tradì il popolo meridionale.