Intervista a Gabriele Del Mese Fondatore della OVE ARUP ITALIA, uno dei più prestigiosi e importanti Studi di Progettazione del mondo e sostenitore accanito della multidisciplinarità. Alcuni dei suoi Progetti: il grattacielo della Commerz Bank di Frankfurt; Palahockey di Torino; Il Lingotto di Torino; la sede del Sole 24ore di Milano; American air Museum.
Parlando di/con Gabriele Del Mese
di Paola Salvatore
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Eccellenza e innovazione: due temi che per noi italiani si associano a una condizione rara di unicità, genialità, sacrificio e spesso di individualità possono rappresentare invece, fuori del nostro Paese, una condizione quotidiana da perseguire in una logica di confronto e di scambio vissuta come l’unica logica possibile per generare l’unico risultato possibile: la qualità.
È in questo mondo, a noi estraneo, che ha vissuto Gabriele Del Mese. Entrato in Arup nel 1973, unico ingegnere italiano fino agli anni 2000, durante la sua carriera, è stato responsabile per la progettazione e la costruzione di un gran numero di progetti complessi, in diverse parti del mondo e in collaborazione con i più importanti architetti contemporanei.
Promotore e sostenitore della progettazione integrata multi-disciplinare come approccio ideale per raggiungere un livello di qualità unitaria, vede nel lavoro dell’architetto, del progettista strutturale, dell’impiantista e nelle richieste della committenza la ricerca di un obiettivo comune.
È l’interazione tra queste forze e l’approccio mentale che si richiede ai vari attori del processo creativo che determinano il risultato vincente: non si cercano soluzioni codificate da catalogo ma si ricercano soluzioni e combinazioni fino ad arrivare all’unica convincente per tutti. È questa la metodologia perseguita negli anni da Arup e che ne ha fatto un modello in termini di eccellenza e una garanzia di risultato. Gabriele Del Mese nel 2000 fonda Arup Italia con sede a Milano e successivamente a Roma.
Una sua definizione di eccellenza e di innovazione.
G.D.M.: Eccellenza, innovazione e qualità sono termini che nel nostro mestiere dovrebbero essere intrinsecamente legati in modo da poterli considerare l’uno sinonimo dell’altro. Sono quindi facce della stessa medaglia, per cui si potrebbe dire che l’innovazione in architettura, nel senso più lato, è il risultato della ricerca della soluzione progettuale integrata che, tra le tante possibili, raggiunga un livello di qualità percepita dal team in generale come eccellenza professionale riferita al progetto in esame e al brief che la committenza dà ai progettisti.
Dopo nove anni dalla decisione di aprire una sede Arup in Italia, qual è il suo bilancio?
G.D.M.: Quando guardo indietro ho l’impressione che si sia trattato di un task molto difficile e tutto in salita. Convinto che una delle cose più belle che possa capitare ad una persona sia quella di vivere una “avventura”, iniziai con grande entusiasmo, conscio delle notevoli difficoltà che ci sono in questo Paese. Le difficoltà iniziali furono enormi. Da una parte c’era il mercato locale italiano notoriamente difficile e inaffidabile che stava uscendo dalla vicenda di “mani pulite”, e dall’altra parte, a Londra cioè, c’era un notevole scetticismo per lanciare un’operazione commerciale in un mercato che definire difficile era a dir poco un eufemismo. Inoltre, mi veniva spesso chiesto cosa mai si potesse “portare” agli Italiani che facesse la differenza e favorisse appunto il fiorire di un nostro ufficio. Alla prima obiezione sulla difficoltà di un mercato piagato da anni di corruzione risposi che il “post mani pulite” era da considerare un’opportunità di apertura all’Europa per un Paese che notoriamente aveva super-protetto la professione riservandola praticamente solo agli Italiani. Per quanto riguarda la seconda obiezione ero convinto che bisognava portare in Italia la metodologia del dialogo e della dialettica progettuale, perché durante le mie molte “esplorazioni italiane” avevo constatato con stupore come la gran parte degli architetti italiani, generalmente, non avessero alcun dialogo creativo o “pro-attivo” con i loro co-progettisti tecnologici. A distanza di 9 anni posso forse dire che il timing per la fondazione della sede italiana della Arup sia stato buono e che la missione che mi ero prefissata, quella appunto di portare dialogo progettuale ed eccellenza multi-disciplinare in questo Paese, sia iniziata bene. Mi auguro quindi che questa filosofia prosegua su un terreno fertile e che molti, e soprattutto i giovani, ci seguiranno.
Pensa che gli architetti e gli ingegneri italiani siano pronti e formati per sposare la logica della progettazione integrata?
G.D.M.: Io credo fermamente che l’approccio multi-disciplinare e integrato che porti ad una progettazione “olistica” sia l’unico metodo oggi possibile e che sia anche il migliore in grado di affrontare e risolvere le molteplici e sempre crescenti complessità del mondo in cui ci muoviamo. Credo anche che la tecnologia e il contributo tecnologico-specialistico sia oggi una componente essenziale nell’architettura contemporanea, dal piccolo edificio ai grandi sviluppi urbani e infrastrutturali. Questi sono i due punti che continuamente “predico” da quando sono rientrato in Italia. Devo comunque dire, e con molto rammarico, che in Italia si è ancora lontani da questa filosofia che dovrebbe essere “normale”, anche se lentamente si vedono segni di miglioramento. I giovani architetti seguono spesso le orme dei loro predecessori, i “maestri” della passata generazione, e come loro operano spesso in isolamento percependo l’apporto tecnico e specialistico come un “fastidio” e un “limite” alla loro presunta creatività, mentre gli ingegneri troppo spesso si preoccupano principalmente di far “tornare” i numeri e far “stare in piedi” gli edifici, rinunciando quindi a priori alla loro funzione primaria.
Come giudica il mondo universitario italiano?
G.D.M.: L’Università fa quello che può in questo Paese gravato da tanti problemi sociali, economici e culturali. Molti istituti universitari hanno buoni docenti e buone intenzioni, ma queste sono spesso mortificate dalla mancanza di risorse adeguate. Inoltre, in stile prettamente italiano, quando si rendono conto che bisogna cambiare, fanno delle riforme e le fanno sempre in modo da non scontentare nessuno, col risultato di aumentare il disordine e la confusione già esistente. Certamente ci si guadagnerebbe tutti se la ricerca dell’eccellenza professionale in Ingegneria e Architettura cominciasse dall’Università e se si avesse il coraggio sociale di sfoltire gli atenei con severi criteri selettivi, lanciando così il messaggio che un buon operaio è certamente più utile al Paese che un cattivo architetto/ingegnere.
Lei è stato responsabile per la progettazione di grandi lavori in diverse parti del mondo: Italia, Inghilterra, Germania, Libia, Iran, Iraq, Kuwait, Abu Dhabi, Arabia Saudita, Hong Kong e Filippine. In quale di questi Paesi ha lavorato meglio? Dove peggio?
G.D.M.: Libia e Arabia sono stati certamente Paesi difficili per diverse ragioni, specie negli anni Settanta. Mi sono trovato molto meglio in Iran prima della rivoluzione e in Iraq durante la guerra. Anche il periodo passato ad Hong Kong è stato molto interessante.
Un pregio e un difetto degli architetti italiani.
G.D.M.: Buona inventiva formale dell’oggetto architettonico, accoppiata spesso ad una mancanza di visione “olistica” del progetto.
Un pregio e un difetto degli strutturisti italiani.
G.D.M.: Bravissimi a far “girare” numeri, ma purtroppo poco progettisti-integrati.
Un pregio e un difetto degli impiantisti italiani.
G.D.M.: Senza infamia e senza lode perchè spesso…”non ci sono”.
Un pregio e un difetto della committenza italiana.
G.D.M.: Generalmente molto simpatici, ma abituati male dai professionisti italiani che fanno per loro tanto lavoro gratis promozionale senza compenso alcuno.
Trova che in Italia ci sia dignità ed etica professionale?
G.D.M.: Domanda difficile: troppo spesso sento professionisti parlar male dei loro diretti colleghi e competitori. Credo comunque che ai livelli più alti ci sia etica professionale.
Come giudica l’impostazione e la gestione dei concorsi di architettura in Italia?
G.D.M.: Ci sarebbe molto da commentare su questo argomento. Io credo che “l’istituto dei concorsi” per acquisire commesse architettoniche sia in genere una buona cosa, ma credo anche che tutti i concorsi debbano essere gestiti in una fase unica. Ritengo anche che molti concorsi dovrebbero essere orientati verso la scelta di un team multi-disciplinare che mostri la miglior attitudine alla soluzione dei problemi del cliente e del suo brief, non certamente verso l’esame e la scelta di uno schema che poi, per cieche regole di concorso, diventa inamovibile e non soggetto a ri-negoziazione. Questo vorrebbe dire istituire e dare importanza a colloqui pre-concorsuali con i vari team pre-selezionati. Infine bisognerebbe arginare la marea enorme di concorsi italiani che fanno sprecare solo risorse e tempo ai progettisti senza poi che le opere messe a concorso vengano mai realizzate.
Ci può dire qualcosa di quest’ultimo lavoro che sta seguendo con Kengo Kuma a Cava de’ Tirreni?
G.D.M.: Finalmente un po’ di genuina freschezza progettuale in un mondo dove per essere notati si propongono, e si accettano!, progetti contorti e sbilenchi. In questo progetto di “quartier generale” per una società di distribuzione della Campania anche il contesto è visto come un elemento importante della invenzione progettuale. Il progetto ha destinazione ad uso misto ed è gestito direttamente dal cliente con rara visione e approccio multi-disciplinare, servendosi di consulenze tecnologiche internazionali che affiancano il team architettonico man mano che lo schema prende forma. Un elemento molto interessante è la ricerca, al momento in atto, sull’involucro dei vari blocchi che costituiscono lo sviluppo dei vari edifici. Questa ricerca cercherà di utilizzare come facciate il tufo (materiale locale) e il vetro.
Per finire, quali risposte, secondo lei, dovrà dare l’architettura nel prossimo futuro?
G.D.M.: Non ho dubbi che ora come mai bisogna insistere per porre basi profonde nella mente dei giovani ed in quella dei nuovi committenti affinché capiscano che l’architettura multi-disciplinare ha un ruolo sociale ed etico molto importante. Questo ruolo deve essere inculcato e sviluppato fin dagli insegnamenti universitari. Con la tendenza attuale degli sviluppi edilizi che tendono globalmente alla formazione di megalopoli nel futuro, l’architettura “olistica” deve dare soluzioni concrete ai problemi del risparmio energetico e a costruzioni che siano sempre più eco-sostenibili, contribuendo a renderli belli e armoniosi.
Articolo Interessante!!! 🙂 Spero possa venire all’università di Salerno per raccontarci la sua esperienza. Sono stanco di ascoltare seminari, a Fisciano, tenuti dai soliti Ingegneri-Architetti che hanno, oltretutto, una minima esperienza rispetto all’ing. Del Mese!!!
Può, lei,data la parentela, metterci una buona parola?
:)))
Spero proprio di si se però l’Università di Salerno lo richiede. Anche perché, in Campania, ha tenuto seminari all’Università di Napoli, e proprio la settimana scorsa, al Suor Orsola Benincasa.
Il seminario, come lei mi ha detto, si terrà il 5 Maggio 2009 alle ore 10 nell’aula delle lauree di Ingegneria presso l’università di Salerno (Fisciano) , e verterà sul tema “….dallo schizzo alla costruzione” , sembrava giusto avvertire anche tutti i lettori del blog!! 🙂
Salve, sono una studentessa dell’Università di Tor Vergata a Roma e devo fare una relazione sull’ing. Gabriele Del Mese e volevo sapere se era possibile in qualche modo entrare in contetto con lui per alcune domande da porgergli, anche una semplice mail.
Le sarei molto grata