Legge ordinaria o Piano Casa, l’urbanistica ha bisogno di una visione unitaria
Il diritto a quote inderogabili di verde, parcheggi e attrezzature pubbliche ha rappresentato una conquista della cultura urbanistica per la città in espansione, oggetto dei piani regolatori del Novecento.
di Davide Bruno
per POLITICAdeMENTE il blog di Massimo Del Mese
BATTIPAGLIA – Le scelte della pianificazione sono al centro del dibattito regionale sia perché la legge 19/09 (cosiddetto “Piano Casa”) è stata novellata più volte ed è in proroga da 13 anni sia perché da due anni si ripetono gli appelli per approvare la nuova legge regionale urbanistica. Una nuova norma regionale è ormai una necessità a distanza di 18 anni dall’ultima legge regionale in materia, che tra l’altro imponeva ai Comuni l’approvazione dei PUC, i nuovi piani urbanistici, con il risultato che solo il 17% dei Comuni ha ottemperato a tale obbligo.
È giusto aprire un confronto serio che porti ad un risultato tangibile in termini di scelte normative e in termini di rilancio della rigenerazione territoriale, ambientale e paesaggistica in un quadro di sostenibilità economica e sociale. Tutte le scelte che compie il “decisore pubblico” devono essere attuabili dal punto di vista economico-finanziario e in grado di migliorare la qualità della vita. Introdurre strumenti che non possono essere attuati o antieconomici o che provocano un peggioramento della qualità della vita dei cittadini è una condanna insopportabile per le nostre comunità. Tale dibattito non ha bisogno di ipocrisie, c’è bisogno di un confronto schietto senza sparare nel mucchio, senza superficialità, cercando di compiere uno sforzo di merito sulle questioni.
Gli attacchi alla legge del Piano Casa sono superficiali, non fosse altro perché l’ossatura della demolizione-ricostruzione, della premialità dei volumi e dei cambi di destinazione d’uso li ritroveremo anche nella nuova legge urbanistica regionale. Il vero problema è l’utilizzo delle norme del Piano Casa, in che modo vengono attuate e in quale prospettiva dello sviluppo territoriale si innestano. Oltretutto una posizione negativa porta oggi a contestare queste norme a scadenza e domani porterebbe a contestare norme a tempo indeterminato. La questione dirimente è l’applicazione che gli Enti Locali, i Comuni, fanno di questa legge: è un danno se serve ad aumentare il disordine delle città, riducendo la vivibilità e aumentando un patrimonio edilizio di scarsa qualità, invece è un ottimo strumento se usato per anticipare scelte strategiche senza aspettare i tempi lunghi dei procedimenti amministrativi ordinari e se utilizzata per aumentare gli standard urbanistici ossia verde pubblico, parcheggi pubblici, attrezzature collettive (cioè gli spazi pubblici minimi in relazione agli insediamenti urbani) per un’amministrazione pubblica sempre più indebitata e con risorse contratte per gli investimenti. Inoltre, non si rende merito ad un’operazione di novellazione del Piano Casa regionale che si è avuta negli anni, alcune volte per iniziativa del legislatore regionale, altre volte sancita dal giudice amministrativo e costituzionale: l’inapplicabilità del Piano Casa per sanare abusi edilizi, la differenza tra volume potenziale (per l’art.4 relativo all’ampliamento con bonus volumetrico del 20%) e volume esistente (invece per l’art.5 nei casi di demoricostruzione con bonus volumetrico del 35%), il superamento dell’art.7 comma 5 sulle aree degradate e l’introduzione dell’art.7 bis per fare spazio al concetto di contenitore produttivo dismesso da ricostruire con i cambi di destinazione d’uso sottoposti all’approvazione del consiglio comunale e alla verifica degli standard del D.M. 1444/68 (unica legge in questa materia), la prevalenza gerarchica del piano paesaggistico su tutti gli altri strumenti di pianificazione territoriale e urbanistica compreso il Piano Casa.
Un insieme di norme rinnovate, sentenze puntuali sia della Giustizia Amministrativa che della Corte Costituzionale, interventi riusciti e di scontri su applicazioni non condivise sono sicuramente un bagaglio da non disperdere sia nella consapevolezza della pianificazione del territorio che nell’ipotesi di un testo unico regionale in materia di edilizia e urbanistica.
Terminata la fase espansiva delle città, l’attenzione della disciplina urbanistica, degli operatori economici e dei decisori pubblici si è sempre più concentrata sul paradigma della rigenerazione urbana. Questo processo, tuttavia, non deve essere inteso come mera evoluzione delle azioni di riqualificazione urbana ad una scala più ampia, in quanto il suo lato più innovativo risiede soprattutto nel contemplare anche strategie di inclusione sociale e sviluppo economico locale, finalizzate all’innalzamento della vivibilità e alla riorganizzazione delle basi economiche delle città.
È necessario, dunque, rimettere in discussione una visione relativa a una città ormai in dissolvenza, predisponendo strumenti per la costruzione di scenari che ne ricompongano la frammentazione spaziale, ne sostengano le componenti più dinamiche e ne riequilibrino il mix funzionale.
In questo contesto, è necessario sviluppare progettualità capaci di dare risposta ai fenomeni di dismissione sia di grandi aree e contenitori, sia di spazi minuti e diffusi nel tessuto urbano consolidato, per la costruzione di una città sempre più sostenibile.
La questione del recupero degli spazi, sia di grandi aree e contenitori, sia di spazi minuti e diffusi, fa parte di un più ampio ragionamento sulla città, dove numerosi sono gli edifici dismessi, soprattutto riferiti al settore produttivo, per i quali è necessario trovare una nuova destinazione che ovviamente non è solo residenziale ma se consideriamo le destinazioni direzionali, turistiche, commerciali e di servizi sanitari e di assistenza abbiamo un quadro più serio e concreto delle necessità urbane. E più seria e concreta è la riflessione che intendo fare partendo dalla mia esperienza di amministratore pubblico.
Sono stati promossi interventi, presenti nel preliminare del piano urbanistico approvato, attuando l’art. 7 bis nel centro urbano con destinazioni residenziali e commerciali. Altri interventi sono stati motivo di scontro e non attuati. Il discrimine? La consistenza dei volumi e soprattutto la mancata cessione degli standard. Ritengo che la cessione degli standard sia la parte fondamentale per ogni intervento. Il legislatore regionale spostando l’oggetto dell’intervento dal concetto di area dismessa al concetto di contenitori produttivo dismesso con la verifica degli standard ha introdotto una norma funzionale ed equilibrata.
È impensabile pensare ad una deroga allo strumento urbanistico vigente senza che tale intervento sia accompagnato da un aumento degli standard in caso di aumento di carico urbanistico, cioè l’aumento degli abitanti nella zona oggetto dell’intervento. Così com’è impensabile pensare ad un raffazzonato ricorso alla monetizzazione degli standard per evitarne la cessione travisando anche l’intento della norma regionale che concede la possibilità di monetizzare per evitare l’acquisizione di aree frammentate e non funzionali imponendo però al Comune di utilizzare le somme della monetizzazione per reperire nella stessa zona aree più idonee per la collettività nella logica che la monetizzazione non serve per ridurre la quantità degli standard ma per evitare di avere standard poco funzionali. Se ne ricava, quindi, un assetto regolativo che favorisce gli interventi di recupero di edifici produttivi dismessi, in deroga alla vigente pianificazione urbanistica, senza il sacrificio degli standard urbanistici e degli altri superiori interessi pubblici presidiati dalle norme nazionali.
Nel corso del tempo gli interventi approvati in questa logica positiva hanno portato ad un aumento degli standard (un’acquisizione impensabile se dovesse essere fatta con le scarse risorse economiche pubbliche). In quest’ottica sono più problematici gli articoli 4 e 5 del Piano Casa che autorizzano un aumento del carico urbanistico senza essere accompagnati dalla cessione degli standard e senza passare per il consiglio comunale. Questa è la vera questione: qualsiasi intervento va accompagnato da un aumento degli standard, si possono derogare le destinazioni d’uso o i volumi ma mai la vivibilità.
Oggi, a fronte di un’attenzione crescente alla città, ove sono centrali questioni come l’adattamento ai cambiamenti climatici e sociali, le strategie di prevenzione dei rischi, l’importanza delle reti, materiali e immateriali, che costituiscono città pubblica in senso lato e di sostanza, è necessaria la declinazione rinnovata degli standard. Per la città in espansione, oggetto dei piani regolatori del Novecento,
il diritto a quote inderogabili di verde, parcheggi e attrezzature pubbliche ha rappresentato una conquista della cultura urbanistica.
Quella conquista va resa funzionale alla città da riqualificare, va migliorata a livello qualitativo e non può certo essere negata o ridotta!
Battipaglia, 7 maggio 2022