Qualcuno salvi il futuro della ricerca italiana

La crisi ha colpito settori importantissimi come quello della ricerca: il caso Glaxo e dei 26 gruppi industriali ad alta tecnologia in crisi, rappresentano un gravissimo segnale.

I genitori della metà del secolo scorso erano consapevoli che i loro figli avrebbero avuto un futuro migliore. Pochi oggi potrebbero affermare che i loro figli staranno meglio.

di Erasmo Venosi

Erasmo Venosi

ROMA – I consumi italiani mostrano una diminuzione per gli effetti prodotti dalla disoccupazione. La timida crescita si è subito arrestata  mentre sul lato della disoccupazione sembra dimostrarsi valida la legge di Okun. Applicata al contesto italiano, mostra l’incremento di un punto percentuale di disoccupazione per ogni diminuzione della ricchezza prodotta di due punti di PIL: la disoccupazione a dicembre era pari all’8,5% coerente con una diminuzione nel 2009 del 4,9% del PIL rispetto al 2008.

La crisi sta però colpendo anche settori importantissimi come quello della ricerca: il caso Glaxo e dei 26 gruppi industriali ad alta tecnologia in crisi, rappresentano un gravissimo segnale. Rispetto a tale situazione una condivisa visione strategica, tra maggioranza ed opposizione, sarebbe la risposta responsabile e doverosa soprattutto verso quella moltitudine vasta di giovani di questo meraviglioso e sfortunato Paese.

I genitori della metà del secolo scorso erano consapevoli che i loro figli avrebbero avuto un futuro migliore. Pochi oggi potrebbero affermare che i loro figli staranno meglio. Assente la definizione della traiettoria da seguire per dare concretezza ai progetti, ai bisogni e alle aspirazioni dei giovani. Negli Usa il regista Otto Shaw tre anni fa lanciò l’iniziativa riguardante il rapporto tra scienza e competitività, quando furono raccolte le firme di 170 Rettori delle più importanti università americane e quelle di decine di premi Nobel. Sul web furono registrati sull’argomento 800 milioni di contatti e formulate 14 domande ai candidati presidenti Obama e McCain.

Nel febbraio del 2009, per rilanciare l’economia americana, Obama ha messo a punto il Pacchetto Stimulus, a partire dalla Ricerca e Università nei settori con potenziali ricadute immediate. La Germania ha fatto un piano decennale di Eccellenza e la Francia un Grand Emprunt da 30 miliardi di euro. In Italia un appello sul modello di quanto fatto negli Stati Uniti sarebbe ancora più urgente. Gli investimenti in R&S sono la metà della media dei Paesi Ocse. L’Italia si colloca al 21esimo posto per quanto riguarda il sostegno per R&S alla grande impresa e al 14esimo posto per le misure riservate alla piccola impresa.

La ricerca industriale svolge un ruolo strategico per la competitività del sistema produttivo nazionale in quanto direttamente finalizzata alla conversione della conoscenza scientifica in applicazioni commerciali. La ricerca delle imprese è però mirata mentre quella universitaria  determina impatti generali, ovunque quelle idee, quelle tecniche o quei prototipi possono essere usati con successo. Sono le imprese spinoff che le università possono generare a essere strumenti per il rilancio dell’innovazione sul territorio. Inoltre le modifiche legislative introdotte stanno determinando il passaggio dal finanziamento a pioggia a quello meritevole sottoposto alla valutazione (informed peer-review).

Un piano Stimulus italiano potrebbe far riferimento a quanto proposto dal prof Ciavarella del politecnico di Bari: operare una ricognizione di fondi disponibili non spesi per il recupero di un miliardo di euro (fondi “in sonno” nazionali ed europei non spesi dalle Regioni per cui scatta la restituzione a Bruxelles. Dal 1995 al 2006 risorse per 30 miliardi di euro sono state accumulate per incapacità amministrativa e limiti di orientamento dei progetti. Nel biennio 2006-07 le Regioni del Sud hanno rischiato di perdere circa 9 miliardi!).

Le risorse recuperate dovrebbero consentire il finanziamento dei progetti Firb-Futuro ricerca (progetti pervenuti per 3 miliardi di euro e finanziati con i 50 milioni di euro disponibili), i Prin (Progetti ricerca di interesse nazionale), incremento del Ffo (Fondo ordinario università) mirato sulle università che predispongono un piano di rilancio e di risanamento come fatto dal Mit di Boston. Pubblicazioni scientifiche, brevetti, prototipi, innovazione e sperimentazione industriale possono essere gli strumenti per aiutare il Paese a sognare un futuro migliore.

di Erasmo Venosi
da Terra

1 commento su “Qualcuno salvi il futuro della ricerca italiana”

  1. Se, da un lato, mancano i fondi pubblici, non si può dire bene dei privati. Pur riconoscendo che molti svolgono un’attività di innovazione non formalizzata, e quindi non rilevata dalle statistiche, i nostri imprenditori sembrano ancorati ad un tipo di impresa troppo utilitaristica in quanto legata al profitto immediato senza una vision a medio-lungo termine. A riprova della mancanza di interesse per il rinnovamento tecnico, la percentuale di personale impiegato in R&S in Italia precipita sotto quello di moltissimi paesi: con lo 0,673 percento la Penisola cede il passo a Corea (0,829), Germania (1,179), Francia (1,285). In cima alla classifica si piazzano invece Finlandia, Svezia e Danimarca. L’Italia potrebbe recuperare il ruolo di centralità nell’economia europea e mondiale, se l’imprenditoria italiana avesse il coraggio di investire (anche con il supporto dello stato) massicciamente nella nostra più grande risorsa (forse unica al mondo): la creatività delle nostre giovani menti.

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