Laviano, 23 novembre 1980-23 novembre 2017: Per non dimenticare il sisma, il terrore, gli eventi gli uomini.
Giovedì 30 novembre, ore 19.30, Via Balzico, “I dieci comandamenti-il danno”, relatore Franco Musumeci: “Non è forse vero che la lotta degli uomini contro il potere è anche la lotta della memoria contro l’oblio“.
da POLITICAdeMENTE il blog di Massimo Del Mese
LAVIANO – Arrivammo, con Geppino Cilento, a Laviano, la notte s”tessa di quella maledetta domenica 23 novembre 1980, perche’ preoccupati dal fatto che fosse impossibile raggiungere telefonicamente qualcuno dei compagni che conoscevamo. Laviano occupava un posto speciale nella geografia sindacale ed in quella del nostro cuore. Da Laviano era partita sotto la spinta di un compagno straordinario, di nome Peppino Botta, la riscossa delle braccianti contro caporali e padroni, che culmino’ in uno sciopero generale che il sette ottobre 1980 porto’ le strade di Eboli ad essere invase, come, mai, da migliaia di braccianti in lotta contro il caporalato ed il sottosalario.
Peppino era un compagno che anche a quei tempi in cui la militanza era considerata un valore, era difficile da trovare: poche chiacchiere e molti fatti, assoluto disinteresse personale. Lavorava in una fabbrica chimica a Candela, faceva uno strano turno con tre giorni di lavoro e quattro giorni di riposo.Il riposo lo dedicava quasi tutto al Sindacato. Girava instancabilmente con la sua 127 amaranto a cercare lavoratrici e lavoratori con cui parlare per convincerli ad uscire dalla passivita’ e dalla rassegnazione. E guai a parlargli anche solo di un rimborso spese.Io voglio dare al Sindacato non avere, rispondeva con il suo sorriso disarmante. Dopo lo sciopero di ottobre ottenemmo dalla Regione l’istituzione, in via sperimentale, di due linee pubbliche per il trasporto delle donne nella Piana del Sele, per liberarle dal ricatto del caporale. Era un successo che poteva trasformarsi in un boomerang se le donne fossero salite sul pullmino del caporale e i Bus della Regione fossero rimasti vuoti. Preoccupati di questo la sera prima io ed Eufrasia, che era segretaria provinciale della Federbraccianti dormimmo a Laviano, a casa di Peppino.
Noi eravamo piu’ pessimisti, Peppino come era nel suo carattere era molto ottimista. Aveva ragione Lui e la mattina dopo decine di donne tra gli applausi e le lacrime salirono sui bus della Regione. Peppino lo trovammo morto insieme alla giovane moglie. Si era salvata solo Milena, la figlia di tre anni, protetta dal suo corpo.
Ma tornando a quella notte terribile quando io e Geppino siamo arrivati due cose mi hanno immediatamente colpito :la luna era scomparsa oscurata da una nuvola di polvere e mentre cercavamo di raggiungere il paese, zigzagando tra le pietre rotolate a valle, i fari della macchina inquadravano gli occhi sbarrati dal terrore di uomini e donne, sembrava avessero visto un mostro tremendo, che fuggivano disordinatamente, senza una meta, senza una direzione, come per lasciarsi alle spalle in qualsiasi modo il mostro che li aveva tanto spaventati.
Laviano non esisteva piu’ e di Laviano non avevamo sentito parlare nei servizi trasmessi in televisione. Abbiamo compreso che la prima cosa da fare era lanciare l’allarme. Allora non esistevano telefonini e così abbiamo fatto all’incontrario lo stesso percorso fatto per arrivare a Laviano e lungo la strada, in piena notte, bussavamo alle porte dei compagni che conoscevamo invitandoli ad organizzare primi e immediati soccorsi. La mattina all’alba siamo giunti al cantiere della Rozzi, impegnata nella realizzazione della variante alla S.S. 18.Stavano montando gli operai del primo turno e chiedemmo uomini e mezzi. Il capocantiere chiamo’ direttamente Costantino Rozzi il quale rispose: Mettete a disposizione del Sindacato tutto quello che chiede e fu,così,che una colonna di uomini e mezzi partì da Ceraso alla volta di Laviano. E per alcuni giorni essi furono gli unici soccorsi organizzati presenti. Ricordo le lacrime quando dopo cinque giorni da quella notte l’escavatore guidato da Saturno de Luca con precisione da chirurgo aprì un varco dal quale salto’ fuori una bambina di cinque anni,per correre tra le braccia della mamma. E fu sempre un camion guidato da Saturno che in una notte frustata dalla pioggia e dal vento trasporto’ piu’ di trecento bare dalla piazza del paese al cimitero. Poi sono arrivati gli operai dell’Italsider di Genova che oltre a scavare tra le macerie in meno di mezza giornata hanno allestito una cucina da campo,capace di sfornare centinaia di pasti.
Intanto le cosiddette autorita’ se ne stavano rintanate nel campo base allestito a circa due Km. dal paese e si rifiutavano di mettervi piede, nonostante sotto le macerie ci fossero decine di persone vive o morte. Ricordo Geppino aggredire fisicamente e prendere per il bavero un capitano dell’Esercito e il comandante dei Vigili del Fuoco e gridargli che il loro compito non era quello di distribuire coperte o generi alimentari e che il loro posto era in paese tra le macerie a coordinare i loro uomini. Ma non ci fu niente da fare. Loro e il Sindaco di Laviano continuarono a fare i magazzinieri. Fu in questo frangente che una intera classe dirigente, quasi tutta democristiana, omogenea per storia e per cultura perse il suo onore qualsiasi legittimazione politica, etica e morale a governare quelle comunita’. Si sentiva l’esigenza di una svolta radicale e immediata perche’ da lì a poco, superata l’emergenza, si sarebbe deciso il futuro dei sopravvissuti e delle generazioni a venire. Fu in quei giorni che conoscemmo Rocco Falivena, ex militante di Lotta Continua, laureato in Sociologia a Trento. Tornato dall’Inghilterra dopo tre giorni dalla scossa assassina, perche’ le autorita’ italiane a Londra gli dicevano che a Laviano non era caduta neanche una tegola, aveva disseppellito dalle macerie i corpi senza vita di diciotto familiari stretti. Cominciammo a discutere con lui su come organizzarsi per avere rappresentanza e voce in capitolo nelle scelte che si sarebbero compiute. Fu così che a Laviano si costituì il primo Comitato Popolare composto da rappresentanti della popolazione e rappresentanti dei volontari. Il modello si diffuse rapidamente in tutti i paesi terremotati e fu costituito il coordinamento dei Comitati. Essi si sostituirono alle istituzioni e diventarono il punto di riferimento della popolazione, dando vita ad una esaltante esperienza di autogoverno, di democrazia e partecipazione, in cui le assemblee di popolo divennero l’unico luogo in cui si prendevano le decisioni. Importante fu il sostegno che il Partito Comunista Italiano, diretto, allora, a Salerno, dal compagno Paolo Nicchia, che gia’ aveva messo in campo tutta la sua forza organizzativa e istituzionale nei soccorsi e nella prima emergenza, diede ai Comitati Popolari, testimoniato dalla visita che Enrico Berlinguer volle fare nelle zone terremotate e dalla sua partecipazione alla cerimonia di apertura, dentro un container, della sezione del PCI di Laviano. Intanto era partito immediatamente il primo censimento dei sopravvissuti o,per meglio dire, delle sopravvissute. Non lo organizzo’ lo Stato, ma i caporali che giravano nei paesi, preoccupati per la prossima stagione di raccolta di fragole e pomodori. Il mio grande dolore, ancora oggi, oltre alla perdita irrimediabile di Peppino Botta e’ alimentato dal ricordo di avere rivisto in vita poche di quelle straordinarie e splendide donne che una mattina di ottobre compiendo il semplice gesto di salire gli scalini di un bus avevano sfidato gli uomini, se tali si possono definire, che per decenni le avevano tenute in uno stato di sottomissione e di oppressione, sfruttate e sottopagate.
Quel sogno di autogovernarsi non poteva e non doveva durare. Le vecchie classi dirigenti si stavano riorganizzando e non potevano tollerare quel disordine. E in una mattina di primavera ad Eboli si infranse la richiesta di trattenere la propria storia, il colore delle case, le croci del paese, gli angoli delle piazze corrose dal silenzio e dal tempo, le braccia disperate dei tigli levate al cielo. Si infranse contro lo Stato che per mano di un Sindacato miope espropria i Comitati di Popolo. Si infranse quando Luciano Lama in persona nego’ la parola, dal palco del cinema Ritz di Eboli, al compagno Rocco Falivena. In quel Sindacato per me, per Geppino non c’era piu’ posto per svolgere ruoli di direzione e, così, insieme al compagno Antonio Ciardi ci dimettemmo dagli incarichi ricoperti, ritrovandoci, senza arte ne’ parte, a ricominciare da zero la nostra vita sino ad allora dedicata alla militanza politica e sindacale. Di quello che e’ successo dopo meglio non parlare. La massa enorme di finanziamenti dilapidati in progetti ed opere senza senso e la camorra che si fa impresa ed intasca la maggior parte di questa grande quantita’ di denaro.
Da allora sono tornato a Laviano una sola volta e non ci tornero’ piu’. Perche’ Laviano oggi e’ come Atlantide, non esiste piu’. Non una pietra, non una casa, non una piazza, non uno scorcio di paese, non la Chiesa sono stati conservati. Ingegneri, architetti, geometri criminali hanno progettato e costruito un orrendo slum da periferia di una citta’ industriale che al solo vederlo ti viene voglia di farlo saltare in aria con una carica di dinamite e ritornare nei prefabbricati Della Valentina, dove almeno la vicinanza, la contiguita’ consentivano di continuare a mantenere le abituali relazioni sociali.
Meglio allora che Laviano viva solo nel ricordo delle case in pietra arroccate sulla montagna, della piazza dominata dalla Chiesa Madre, dalla fontana sempre generosa nel dissetarti, della sede della Federbraccianti-CGIL, che Peppino aveva fittato e arredato a sue spese. E che insieme ad esso vivano nel ricordo il sorriso leale di Peppino Botta, i volti ed i nomi delle donne coraggiose che volevano rompere le catene dello sfruttamento ed il volto da brigante di Pierino del Vecchio che con un sasso fu capace di scuotere la coscienza di una Nazione intera.
Laviano, 23 novembre 2017