Dal Diario di un naufrago: “Il barcone di Sefaf non ha mai raggiunto l’italia”

“Il barcone di Sefaf non ha mai raggiunto le coste italiane”. Dalla lettera all’intervista di e con Alfonso Esposito.

Una lettera dal titolo “Nel mare della mia mente”, indirizzata agli italiani che è valsa al 36enne battipagliese Alfonso Esposito una menzione speciale per la tematica sull’immigrazione al Concorso Internazionale “Premio Pettoruto”.

Alfonso-Esposito
Alfonso-Esposito

di Rosa Ferro
per POLITICAdeMENTE il blog di Massimo Del Mese

BATTIPAGLIA “Il barcone di Sefaf non ha mai raggiunto le coste italiane”. Così inizia l’epilogo della lettera che ha ricevuto la menzione speciale per la tematica al concorso Premio Pettoruto” con titolo Nel mare della mia mente”. A riceverla Alfonso Esposito, un battipagliese di 36 anni. Una lettera indirizzata agli italiani con la quale si possono rivivere i 4 giorni trascorsi in mare di un eritreo di Asmara diretto verso l’Italia nell’anno 2016.

Il concorso prevedeva la presentazione di un’opera inedita nella forma della lettera dedicato al proprio “Paese”, inteso come luogo natìo, come Nazione, o come posto a cui è legato un particolare ricordo o avvenimento, evidenziandone, qualora si volesse, aspetti socio-culturali e tradizioni. Come mi spiega Alfonso la sua lettera estende il significato di paese allargandone i confini.

Il momento storico che stiamo vivendo rimarrà sui libri di storia con parole come , , populismo, , lampedusa, accoglienza e tante altre che oggi sentiamo comunemente dire. Ma quanti di noi riusciamo a percepire con una certa consapevolezza la realtà di quello che sta succedendo? Non vediamo certamente con i nostri occhi i , ne sentiamo soltanto parlare tramite i mass media o web, ma la realtà chi la vive? Cosa ne sappiamo se in prima persona non  abbiamo parlato con le persone “nere” che arrivano in Italia? Ci sentiamo invasi e abbiamo paura, confusi da tante informazioni. Vediamo tante immagini ma non a sufficienza per farci comprendere che la vicenda assomiglia a tante altre. Ricordiamo gli italiani in mare verso l’america, ricordiamo gli italiani emigranti in terre straniere. Io mi ricordo i racconti di tante persone tornate in Italia che sottolineavano nei loro racconti la discriminazione subita, ma sembra avercelo dimenticato. Ricordiamo gli ebrei che fuggivano dalla Germani nazista così come in seguito altri fuggivano da alcuni paesi dell’Unione Sovietica o più recentemente dai Balcani.

Domande ad Alfonso Esposito

D – Cosa ti ha spinto a scrivere ed affrontare questa tematica?

R – Mi ha spinto a scrivere la necessità di trasmettere le mie riflessioni, la voglia di far immedesimare i lettori nella condizione reale della maggior parte di chi fugge dal proprio paese per persecuzione e per tutte le conseguenze che la guerra può generare. Quando ero bambino mi capitava di guardare documentari sulle guerre mondiali e in particolare  sono rimasto scioccato da quelli sulla seconda guerra mondiale. Scioccato da quello che sono capaci di fare i regimi totalitari e nello stesso tempo pensavo fosse tutto finito. Crescendo mi sono accorto che i regimi totalitari sono un fenomeno estremamente diffuso della storia moderna e sopratutto di quella attuale. Gli anni di pace che viviamo noi in Europa e purtroppo la superficialità che contraddistingue i nostri tempi ci maschera quanto di mostruoso accade in tutto il mondo e a poche migliaia di chilometri da noi. Non si deve rimanere a guardare, bisogna che se ne parli, bisogna lasciare un contributo perchè credo fermamente che un singolo non può molto, ma tanti singoli uniti possono cambiare lo stato delle cose.

D – Come è nata la struttura della tua lettera?

R – La struttura, la parte letteraria era poco importante. Mi sono concentrato sull’efficace del voler avvicinare il lettore alle vicende vere e drammatiche che le persone che ospitiamo da tanti anni nelle nostre città, vivono nel loro paese e durante il difficilissimo viaggio per arrivare in italia. Quindi ho immaginato di trovare una lettera su una spiaggia non a caso in una bottiglia di plastica traparente con tappo rosso, simbolo di consumismo, sfruttamento delle risorse. La bottiglia la trovo nel mare della mia mente quindi c’è narrativa, ma ci tengo a precisare che i fatti sono realmente accaduti a persone diverse e che, date e numeri, sono reali e le torture descritte sono quelle riportate nel Rapporto della commissione d’inchiesta delle nazioni unite pubblicato l’8 giugno 2016 a Ginevra. Inizia così il racconto di Sefaf, giovane eritreo, non a caso, l’Eritrea è la prima colonia che ha avuto l’italia, e a cui siamo rimasti legati per vicende di carattere economico-politico. Il racconto è seguito da un epilogo che vuole riportare il lettore fuori dalla narrativa direttamente nella realtà.

Si ringrazia Alfonso Esposito per l’intervista e si riporto la lettera, lascio al lettore le riflessioni. Buona Lettura

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Barcone in mare
Barcone in mare

“NEL MARE DELLA MIA MENTE”

Prologo

Quanto segue è la trascrizione di una lettera, indirizzata agli italiani, che io stesso, una mattina di primavera, ho trovato in una bottiglia di plastica trasparente con il tappo rosso. La bottiglia portata avanti dalle onde e indietro dalla risacca, galleggiava perfettamente, l’ho raccolta con l’intenzione di metterla nei rifiuti ma dentro c’era un foglio a quadretti piuttosto mal concio. Mi  trovavo su una spiaggia del mare della mia mente, immerso nei pensieri freddi e umidi di quanto sta accadendo nel Mediterraneo. C’è poca fantasia in quello che leggerete e molti fatti veri. Non ho intento di intristire il viso della vostra anima ma di aprire gli occhi della vostra coscienza.

22 dicembre 2016

Ciao Fratelli Italiani, il mio nome è Sefaf Barole Negash sono eritreo di Asmara.

In questo momento mi trovo a largo della costa libica, per la seconda volta provo a raggiungere l’Italia. Siamo accalcati su un peschereccio, scrivo poggiandomi sul bordo della barca, siamo in tanti fa molto freddo, per fortuna io mi trovo all’aperto, meglio il freddo che la stiva.Mio nonno mi ha insegnato la lingua italiana prima di finire tra gli epurati nel 1994, nel mio paese ho provato ad essere un giornalista fino a che ho potuto, poi sono dovuto fuggire. Chi, se mai leggerà questo scritto, insieme all’anima di mio nonno perdoni il mio italiano incerto e la grafia scossa dai colpi del mare. Se Dio ci assiste tra tre giorni saremo a Lampedusa o tra quattro su qualche costa italiana.Ho portato con me carta e penna, finalmente posso scrivere, su questo barcone pullulante di corpi ho più libertà che nel mio paese. Fratelli italiani, fratelli europei lascio a questi pochi fogli ciò che ho visto con i miei occhi e vissuto sulla mia pelle, se non dovessi riuscire a consegnarla con le mie mani la lascio al mare.Il mare è buono oggi, è la seconda volta che tento la traversata la prima fu nel maggio del 2004, ci imbarcarono su un peschereccio vecchio come questo, eravamo 172 quasi tutti eritrei, ora ci sono uomini e bambini provenienti dalla Somalia, dalla Libia, dal Gambia, dal Burundi, dalla , dalla Costa d’Avorio, dalla Nigeria ci sono anche alcuni marocchini e algerini molto giovani, ognuno con la sua storia, ognuno di loro fugge da qualcosa di spaventoso, pochi vanno alla ricerca di fortuna. La prima volta nel 2004 il barcone finì alla deriva ma poi riuscì ad invertire la rotta, ci arenammo su una spiaggia libica, cercammo una direzione in cui fuggire ma fummo arrestati e portati nel carcere di Misratah poi trasferiti in uno di Tripoli. Un giorno ci vennero a prendere i militari, ci portarono all’aeroporto era il 21 luglio, con quattro voli in due giorni ci riportarono in Eritrea. All’aeroporto di Asmara ci venne a prendere l’esercito, lo stesso esercito da cui eravamo fuggiti, esercito di un regime che ci imponeva un servizio militare a tempo indeterminato, nessuna libertà di opinione e di culto. Ci caricarono su dei camion e ci portarono a Gel’alo sul mar Rosso, ci rendemmo molto presto conto che non si trattava di un carcere ma di un campo di lavori forzati. Una cinta di rovi folti e spinosi rendeva impossibile evadere, eravamo circa 500, ci attendevano giorni di inferno. Al mattino l’appello alle cinque, alle sei al lavoro nel cantiere di un lussuoso albergo, sorvegliati e bastonati dai militari, scalzi e denutriti a 40 gradi di temperatura, l’unico cibo era pane e acqua. Quella tortura durò dieci mesi, poi ci portarono nel campo di addestramento militare di Wi’yan per il servizio di leva a vita, nessun contatto con la famiglia nulla di nulla. Per fortuna il nostro barcone continua a navigare verso l’Italia, stiamo stretti, strettissimi, c’è cattivo odore, la maggior parte di noi non si lava da mesi, su questa nave disperata è difficile anche sporgersi per fare i propri bisogni, molte persone si lamentano altri addirittura litigano, i bambini stanno in silenzio, dalla stiva sale un puzzo acre di gasolio e uomini. Sta facendo notte, il freddo è pungente, ci penetra nelle ossa, il nostro capitano è così drogato che sembra immune al sonno e al freddo.

23 dicembre 2016

Riprendo a scrivere che il sole è già alto, la prima notte è stata dura, per fortuna il tempo è ancora buono e l’Italia è più vicina. Ora sul barcone c’è un grande silenzio, c’è solo il rumore del motore, intorno a noi si materializza il nostro ultimo terrore, decine e decine di corpi senza vita, gonfi come palloni, alcuni laceri e tutti sbiancati dall’acqua del mare. I morti non ci spaventano, la morte, la morte violenta per noi africani sembra essere normalità.Sono fuggito dal campo militare nel 2007, ci ho messo nove anni per riuscire a riprendere il mare, quello che ho visto e quello di cui mi sono reso conto nei miei nove anni di fuga e ben più mostruoso di quello che galleggia in acqua in questo momento. In questa mia missiva mi rivolgo maggiormente ai fratelli italiani perché da eritreo ne conosco il bene e il male, io li perdono per quanto sto per scrivere ma chiedo loro aiuto. Ho scoperto nei miei nove anni di purgatorio che gli aerei libici che ci rimpatriarono erano stati pagati dagli italiani e che l’albergo che noi schiavi esuli abbiamo costruito è nato grazie ai fondi stanziati dall’Italia per lo sviluppo eritreo in cambio di politiche contro l’immigrazione. Fratelli italiani, come potete pensare di fare accordi con un regime che non rispetta i diritti fondamentali dell’uomo? Ho scoperto anche che l’uomo che l’Italia mandò alle conferenze di Khartoum, dove vi erano tutti i rappresentanti dei governi del Corno d’, è ora ai vertici di una grande azienda dei petroli. Fratelli Italiani chi vi amministra da soldi al regime eritreo, li da tramite cooperazione internazionale affidandola ad aziende italiane, questa è solo una diversa forma di colonialismo e noi siamo l’effetto collaterale dell’elisir di eterna giovinezza che l’occidente si procura bevendo il sangue nero. Gli eritrei conosco bene il colonialismo italiano, con il dispiacere nell’anima vi dico che anche il regime eritreo ricorda bene il colonialismo italiano, sopratutto le torture da voi ereditate, che io stesso ho subito e con le quali ho visto soffrire e morire la mia gente, per mano di se stessa. Queste pratiche in Eritrea hanno ancora nomi italiani “Otto, Ferro, Elicottero” la più assurda si chiama “Gesù Cristo”. Ho visto uomini appesi ad alberi legati per le braccia con le punte dei piedi a sfiorare il terreno morire di asfissia come se crocefissi, alcuni di quelli che dopo una settimana non erano morti, li ho visti sostenuti da pochi nervi e pelle, dato che le braccia erano oramai staccate dal corpo.Sul barcone la sofferenza è diventata palpabile, qualcuno è allo stremo, i lamenti si sono moltiplicati, è quasi di nuovo notte, domani potremmo approdare a Lampedusa, potrebbe così finire il nostro olocausto. Penso all’Eritrea che è diventata un arcipelago di Gulag sorti dove prima c’erano i campi di concentramento del colonialismo italiano, ora avanti e dietro di noi c’è solo mare e speranza, sono stanco.

24 dicembre 2016

E’ la vigilia di Natale, ma oggi è un giorno speciale non solo per noi cristiani su questa barcaccia, dovrebbe essere per tutti il giorno dell’approdo.Siamo stremati, abbiamo sete, fame e freddo la speranza ci fa resistere, quando non scrivo provo a riposare, ascolto le storie dei miei vicini. Io so che voi, cari fratelli europei ci considerate un problema e nel migliore dei casi una emergenza umanitaria ma noi siamo una emergenza politica, aiutateci se potete. La nostra Africa è oggi un mosaico insanguinato e disgregato, la violenza e l’efferatezza che ci ha invaso è tanto più mostruosa di quella che l’Europa ha conosciuto nella prima metà del novecento, solo che di noi il cinema non ne parla, il mondo dell’informazione è per lo più al soldo di chi usa la nostra tragedia per spostare distorti equilibri a favore di pochi. Gli africani sono diventati i peggiori carnefici di loro stessi. Ora sono troppo stanco, affamato, addolorato e infreddolito per scrivervi quello che dovreste già sapere. Voglio pensare che stasera approderò in Italia e se qualcosa dovesse andare storto almeno saprete il mio nome, non finirò come i miei fratelli migranti raccolti in mare e sepolti senza nome. Quel poco della mia storia e del mio messaggio sarà letto da qualcuno e così non sarà stato tutto vano.

25 dicembre 2016

Siamo ancora in mare. Abbiamo urtato qualcosa e la botta mi ha svegliato, non so dove ci troviamo ma non si vede alcuna costa. Al quarto giorno questa non è più una barca ma un cadavere galleggiante brulicante di larve semimorte.Sento delle grida provenienti dalla stiva, la barca sembra sempre più lenta, da una portella di coperta esce la testa di un uomo che grida “ACQUA!!!”, non è sete, stiamo affondando. Ora metto i miei fogli nella loro scialuppa di plastica, salvo di me quello che possosalvare.

Epilogo

Il barcone di Sefaf non ha mai raggiunto le coste italiane.

Stime parlano di 23.000 morti negli ultimi dieci anni nel tentativo di attraversare il Mediterraneo, il vero numero è sconosciuto, studiosi di statistica dicono che in questi casi il numero probabile è dieci volte superiore a quello delle stime ufficiali, se così fosse imorti in mare potrebbero essere 230.000, non conosceremo mai il numero esatto ne i loro nomi, sappiamo però che questo è un numero destinato ad aumentare. Nei giorni di Natale del 2016, complice l’anticiclone africano in molti hanno tentato la traversata, sono stati tratti in salvo in mare 417 esuli, tra cui una incinta e un’altra che aveva da pochi giorni partorito su un gommone. I migranti sono solo la punta dell’iceberg di quanto sta accadendo da decenni in Africa, noi Europei che ci facciamo promotori di musei sulla memoria, del giorno della memoria, che ci riempiamo la bocca con propositi di pace, che auto celebriamo la nostraconsapevolezza di ciò che non deve più accadere, non possiamo continuare a far finta che al di la del mare la ferocia umana non sia più spietata che mai e che noi non ne abbiamo Responsabilità. Diamo adito a propacanducole perché ci fa comodo, perché siamo così egoisti da avere paura dei nostri fratelli africani, medio orientali o asiatici che siano. A causa di queste correnti di pensiero faziose e populistiche l’Europa, che poteva essere Unita e forte, è sempre più disgregata e debole, da faro dei diritti umani nel mondo sta diventando il continente dei muri. Sefaf ci chiede aiuto, per aiutarlo dobbiamo essere migliori e Fare scelte migliori, riconsiderare il nostro stile di vita, “dobbiamo essere il cambiamento che vogliamo nel mondo” diceva Gandhi. Sefaf ci perdona traendo ispirazione dal suo idolo africano Madiba (Nelson Mandela), “il perdono e un’arma potente” diceva Mandela e diceva anche “il compito più difficile nella vita è cambiare se stessi”. Si citano nomi importanti per concetti semplici, perché non diventino mai luoghi comuni, tutto ciò che è stato enunciato da grandi uomini è alla nostra portata, ogni concetto più alto che conduca alla pace globale è alla nostra portata, la conoscenza ci può aiutare ma solo la volontà può generare un miglioramento.

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